È tempo di
partire…
Il molo è una
lingua di cemento che si allunga dritta sul mare, le pietre ammassate ai
fianchi per frangere l’onda sembrano praline di gigantesche nocciole.
Guardiamo le
luci delle navi al largo e il mare che imbrunisce di pari passo con il cielo. A
sinistra sfocia il fiume; quel particolare dà il nome all’intero tratto di
spiaggia e io so che a mettersi lì con la canna da pesca, proprio sotto il
cartello di divieto, si prendono delle belle orate. Più in là lo sfavillio dei lampioni
al porto segna il confine per una primavera lontana dal punto in cui sediamo.
«Giocavamo a
pallone su quella spiaggia, insieme. Un pallone di gomma che se lo portava via
il vento prima ancora di calciarlo, e quando riuscivi finalmente a tirare non
potevi mai sapere che direzione prendeva.»
Jessica si
volta a guardare e il vento le sospinge i capelli sugli occhi. «Un gabbiano!»
Dice, riportando lo sguardo su di me.
Io sorrido
appena: «E come lo acchiappo un gabbiano!»
«Allora una
formica, una mosca, qualcosa, qualsiasi cosa!» La sua voce si alza a ogni
parola, ma non va molto più in là perché il vento carico di salsedine le respinge
indietro. Alle nostre spalle c’è un vecchio faretto che non funziona, un misero
cilindretto tutto ruggine di nemmeno tre metri d’altezza.
Rientriamo
passeggiando, io le tendo la mano, ma lei si caccia le sue nelle tasche del
giubbotto. A ogni passo noto le chiazze sul cemento lasciate dai calamari
pescati la notte: si usano delle luci per ingannarli e farli venire a galla.
«Sei sicuro?
Non mi dici bugie?»
«Potrei mentire
su una cosa del genere?» Quelle parole mi vengono fuori quando siamo seduti in
macchina di fianco al cimitero, il tergicristallo scaccia la pioggia dal
parabrezza come impazzito. Sono poche parole, ma sono le più efficaci, se non
per convincerla del tutto almeno per assecondarmi.
«Non posso
mostrartelo: se resuscito qualcosa, poi devo attendere del tempo affinché il
potere si ricarichi.»
Non dice
niente. Apre la portiera ed esce fuori in mezzo alla pioggia. Io spengo il
motore, recupero gli attrezzi dal cofano e le porgo l’ombrello, ma le sue mani
rimangono dentro le tasche.
C’inoltriamo in
un boschetto d’eucalipto che fiancheggia il cimitero, un groviglio di alte
fronde che stormiscono nel buio mentre il vento muggisce in mezzo ai tronchi.
Il terreno fangoso e ricoperto d’erbetta fradicia, s’alza e s’abbassa come un’onda
che si abbatte sul muro di recinzione facendo in modo che si possa scavalcare
agevolmente. Quando siamo dentro le nostre torce fendono gli spazi tra le tombe,
il marmo lucido di pioggia amplifica la luce spedendola in ogni direzione.
“Sento” i visi
nelle foto, percepisco i loro occhi mentre rivoli d’acqua colano sui vetri
dietro i quali si nascondono. C’è la foto di una bambina e io non posso fare a
meno di fermarmi a guardarla: si chiamava Grazia, nel suo mezzobusto indossa il
grembiulino rosa della scuola con un gigantesco fiocco giallo sotto il mento.
«Non puoi
riportarli tutti indietro.» Mi sussurra Jessica, mentre io sto fermo a fissare
la tomba e su di noi piovono scudisciate d’acqua. Afferra la mia mano e mi
conduce sul vialetto di ghiaia che porta alla zona degli alti muri con i loculi
impilati uno sull’altro.
La polvere di
marmo si è impastata con l’acqua sulle mie braccia, le urla roche sono state
annegate dalla pioggia che mi precipita in gola mentre rivolgo il viso al cielo
tra il balenio dei lampi. Jessica piange, ma nella furia dell’acquazzone non
riesco a scorgere le sue lacrime, le labbra le tremano incontrollate e stanno
diventando viola.
«Torna in
macchina!» Le grido lanciando le chiavi e cercando di soverchiare il fracasso del
temporale «torna in macchina!»
Ha un attimo di
esitazione poi scappa a correre nella direzione opposta e l’ultima cosa che
vedo è il cappuccio del suo giubbotto che balla sulle spalle.
È tempo di
partire. Eccomi DEM: sto arrivando.
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