mercoledì 23 aprile 2014

PASQUA DI RESURREZIONE

È difficile credere a ciò che non si vede…

«Scusami.»
«Non c’è bisogno: se me lo avessero raccontato non ci avrei creduto nemmeno io.»

È una casetta situata in una zona pedemontana tra una serie di verdi ondulazioni che gareggiano una sull’altra in avvallamenti e monticcioli. In questo periodo gli ulivi hanno il fiore verdognolo, sui campi spruzzi di giallo e viola indicano distese di fiori selvatici. C’è un grosso albero di acacia che si affaccia sulla strada e alle finestre ci sono ancora gli scuri antichi per chiudere fuori la notte.
Un luogo perfetto che ho fatto di tutto per prendere in affitto a Pasqua. Da lì si può osservare la cima del monte bucare la foschia della sera, recuperare le forze dopo l’avventura con D.E.M. e riflettere ascoltando il canto dell’assiolo levarsi tra l’erba ricoperta di brina.
Ogni mattina faccio una corsetta, tre chilometri tutti in salita fino a una vecchia quercia dentro un boschetto. Mi fermo lì e mi sciacquo la faccia nel mormorio primaverile di un torrentello. Mi riposo venti minuti poi torno indietro camminando.

«Oggi non vai a correre?» mi sorride.
«Credo di essermi stancato troppo.»
Mi dà una pacca sulla pancia; siamo a letto, nudi sotto un lenzuolo bianco. Mi osserva per un poco con i suoi “occhi tondi” poi si alza trascinandosi dietro il lenzuolo per coprirsi e socchiude la finestra. «Dai, ti preparo la cheesecake così quando torni fai colazione con quella.»

Mi alzo, l’assiolo canta da qualche parte nel bosco, la pausa è durata meno del solito. Inizio a camminare: non c’è stata volta, in passato quando eravamo in città, in cui io sia andato a correre da solo.
“Ti faccio una cheesecake…” mi viene da pensare che il frigo è quasi vuoto e di sicuro non c’è mascarpone o formaggio spalmabile.
Prendo a correre, sui campi c’è impresso un giallo e un viola scuro come se la luce dell’ultimo tramonto vi fosse rimasta intrappolata.
“Ti faccio una…” Mi stava chiedendo di fermarla: era decisa a farlo e voleva che io la fermassi.
Supero l’acacia, entro in casa, salgo al piano di sopra e arrivo in camera. Colgo l’ultimo sussulto del piede prima della morte. Il lenzuolo cade giù da una trave e avvolge il collo di Jessica: lei fissa il soffitto e i suoi occhi sono spenti.
Mi precipito in avanti assordandomi con le mie urla, serrando i pugni e calciando via la sedia rovesciata. L’afferro per le gambe, la tiro su in modo che il lenzuolo non rimanga teso. E solo un attimo, una fiammata illumina la penombra in cui gli scuri socchiusi hanno gettato la stanza. Jessica respira di nuovo, tossisce e si dibatte: ha il viso congestionato da un rosso vivo. Lotta contro il lenzuolo attorno al collo mentre io continuo a tenerla sollevata e quando finalmente le riesce di liberarsi cadiamo entrambi sul letto.
«Cosa è successo?»
Io scuoto la testa incapace di rispondere, per me, in quel momento, conta solo tenerla stretta.
Lei piange, poi ricorda qualcosa e tra i sussulti afferra il suo telefono dal mobiletto accanto al letto. Mi mostra lo schermo e io vedo che la registrazione è ancora in corso.
«Scusami.»
«Non c’è bisogno: se me lo avessero raccontato non ci avrei creduto nemmeno io.»
La bacio sulla fronte e la tengo stretta.
Penso al mio potere e mi accorgo che ogni volta è stato sempre più facile. Ora è come se fossi più allenato. Separo mentalmente ogni episodio e studio cosa accomuna i successi e cosa li differenzia dal mio unico fallimento. L’aver salvato Jessica mi porta all’unica conclusione possibile: tutti quelli che sono tornati indietro erano morti da poco, mio fratello è morto da anni.

È difficile credere a ciò che non si vede. Ora sento di avere la forza per fare quello che non si è mai visto.

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