domenica 29 dicembre 2013

Mirror Mirror

La prima impressione, letti i vostri post, è di essere tornata in Liguria, vista l'alta percentuale di whine. Non è un complimento. Eppure mi avete fatto sentire di nuovo a casa, anche se per poco, e di questo ve ne sono grata. Strana cosa, vero? Il concetto di casa. Non ti accorgi di appartenere veramente ad un posto finché non te ne vai. Si dice che tu possa togliere il contadino dalla terra, ma non la terra dal contadino. Nel mio caso puoi anche trapiantare una ligure in mezzo alla bassa padana, ma il legame con il mare e l'abitudine al whine restano. Noi liguri siamo gli overlord del lamento.
La notte tra il 20 e il 21 di dicembre non sono riuscita a chiudere occhio, vai a sapere perchè. Mi sono alzata con uno scazzo che levati e la voglia di spaccare la faccia a qualcuno, perciò ho deciso di scendere al bar sotto casa per un latte macchiato. Lì trovi sempre qualcuno con cui litigare.
Arrivata al bar era ormai passata l'ora di rush della colazione: era deserto quanto il deserto dei tartari. Unico cliente il mio maniaco di fiducia: da quando arrivo a quando me ne vado mi fissa e basta, con lo stesso sguardo di muto rimprovero che hanno i salmoni, sul bancone del pescivendolo. Tre anni di occhiate vitree. Non ha mai detto una parola e da quando s'è fatto crescere la barba è diventato ancora più creepy.
Non ero ancora così disperata da attaccare briga con lui, vai a sapere cosa salterebbe fuori (Pandora docet), perciò sono risalita in casa ancora più arrabbiata. Ho deciso di lavarmi i capelli, nella speranza di lenire lo stress con una dose di arancia amara e fiori di cacao.
È stato allora che ho scoperto il marchio di cui parlate. Secondo me è una sigma, sdraiata su un fianco perché stanca di vivere, sensazione che condivido perfettamente, soprattutto quando accendo la tv e vedo la cosiddetta civiltà. Va beh. Non divaghiamo. Anyway, mi faccio male così di frequente che lì per lì non ci ho nemmeno badato molto. Ho collegato solo dopo.
Il mio bagno si affaccia su uno dei terrazzi. Dallo specchio posso vedere riflesso il parapetto, una porzione di tetto e l'ampio nonché delizioso panorama della zona industriale. Mi stavo asciugando i capelli quando ha iniziato a piovere e mi sono ricordata di avere il bucato ancora steso. Devo uscire a recuperarlo prima che sia troppo tardi, mi sono detta.
Non so come spiegare in modo chiaro cosa è successo dopo. Mi è sembrato di cadere dentro lo specchio, eppure al tempo stesso è stato come se qualcuno mi stesso spingendo, molto forte, nell'altra direzione. Ho sentito un rumore, WHUP! Sensazione di nausea e poi di freddo. Mi sono ritrovata sul terrazzo, in piedi di fronte alla finestra del bagno.
Ho sperato, lì per lì, di stare sognando, uno di quei sogni dove sei nuda e chiusa fuori di casa. Purtroppo non c'erano né alieni né piante canterine né pavimenti spugnosi a corroborare tale idea. E le porta-finestre, ovvio, erano chiuse. Non penso di aver mai bestemmiato tanto.
 Quando ho rotto una finestra tremavo già come un vecchino con il Parkison. Due litri di tè bollente e otto gatti addosso non sono serviti a niente, arrivata a sera ero uno straccio, e il brutto della febbre alta è che lascia la tua mente libera di galoppare in almeno otto direzioni in contemporanea. Il mondo, di norma già un luogo poco accogliente, sembrava stringermi da ogni parte.
La cosa più importante per me, dovete capire, è il controllo. Avere una via di uscita. Mettere sempre le mani avanti. Sapere in anticipo quanto farà male, quando la vita si appresta a calciarti sui denti. Ma un evento del genere sembrava sfuggire a qualsiasi tentativo di razionalizzazione, mandandomi nel panico più completo.
In retrospettiva è stato davvero un brutto momento, ma a leggere i vostri post direi di non essere stata la sola a vedersela brutta, il che se non mi rassicura, almeno mi consola un poco. Un'ultima domanda prima di chiudere: qualcuno è stato da un dermatologo a far vedere 'sto benedetto segno?


venerdì 27 dicembre 2013

IL LUPO

Ciao Sybil, finalmente ti ho trovata! Ero certo di non essere solo.
Ho bisogno di raccontare la mia storia a qualcuno che possa capirla e tu sei la persona giusta. Perché quello che mi è successo è incredibile, ho pensato persino di aver sognato tutto, ma so che non è così!
Bene: cominciamo dall’inizio.

Sono Eidolon, ho ventotto anni e vivo a Bologna.
È il 21 dicembre e sto tornando da una festa insieme a un amico. Ci siamo divertiti molto e non abbiamo pagato una lira, perché, oltre all’ingresso gratis, il barista ci ha offerto un paio di Long Island omaggio. Non per generosità, ovvio: quello ci prova con me dall’alba dei tempi.
Il punto è che nella ricetta del Long Island c'è qualcosa che nuoce gravemente all'organismo umano, perché sia io che Puffo, il mio amico (sì, si chiama Puffo), barcolliamo per la via gonfi d'alcol come vecchie vedove russe.
«Ehi,» balbetto, «che razza di festa! Ma cosa c'ha messo il barista dentro il Long Island? Satana?»
«Tutto l'amore che prova per te,» biascica Puffo. «Ti prego, vacci a letto il più tardi possibile, voglio che questi omaggi non finiscano mai!»
«Ma, Puffo, io non ci andrò a letto mai. Insomma, scherziamo? È solo un flirt finalizzato ad alcol aggiuntivo, il sesso con quell'uomo è fuori discussione.»
Lui ridacchia e si appoggia a una colonna del portico. «Oddio, domani chi ci va a lavoro?»
«Ah, io domani faccio chiusura in negozio,» alzo le mani, «ho tutto il pomeriggio per risuscitare!» Lo afferro per le ascelle e lo tiro in piedi come una marionetta. «Andiamo, dai!»
«Ehi, voi! Avete da accendere?»
Due tizi appaiono alle nostre spalle: uno alto e magro con un giubbotto nero e una felpa gialla dell’Harley Davidson – nemmeno fossimo negli anni ‘90; l’altro basso e tarchiato, con la maglia di una qualche sconosciuta band metal che ha come simbolo la testa di un grosso lupo nero.
«No,» rispondo distrattamente, «non fumiamo.»
Faccio appena in tempo a terminare la frase che il tizio alto estrae dalla tasca un coltello a serramanico.
Puffo sbianca. Il mio stomaco compie un’ardita capriola.
«S-stiamo calmi,» esclamo subito, «vi diamo tutto.» M’infilo le mani in tasca e tiro fuori uno sgualcito biglietto da dieci euro, quello con cui avrei dovuto pagare il drink. «Ho solo queste … ma …»
«Mi prendi per il culo?» sputacchia il tarchiato.
«No, ti giuro che è tutto …»
«Tu non hai solo dieci euro, frocio del cazzo,» insiste quello, sguainando un altro coltello. «Tira fuori il resto o apriamo la faccia al tuo amico!»
In pochi secondi, l'uomo alto agguanta Puffo, mentre l’altro gli sventola la lama vicino alla faccia.
«Cristo, no!» gli urlo. «Fermi! Fermi!»
Il coltello si avvicina pericolosamente all'occhio destro di Puffo. «Vieni a fermarci tu, finocchio?»
Un’orribile senso d’impotenza mi travolge come una valanga, gelida e dolorosa, per poi deformarsi in un rogo di rabbia. Quando il mio sguardo incrocia la maglia del tizio tarchiato, quella col lupo, nella mia mente germoglia un pensiero spontaneo, che tuttora non riesco a spiegarmi: Aiutami.
La mia ira, finora trattenuta dagli argini della paura, straripa come un fiume in piena: un flusso invisibile mi scaturisce dal petto ed esonda oltre il mio corpo. Ed è allora che mi accorgo che i due tizi mi fissano atterriti.
Ma no, non fissano me, stanno guardando qualcosa dietro di me.
Alle mie spalle, un lupo nero grosso come un cavallo avanza tra le colonne, occhi di ghiaccio e fauci gigantesche. La sua pelliccia fluttua liquida, indistinta come un sogno. Mi stropiccio gli occhi, forse è l’alcol o uno stupido gioco di ombre; ma le facce sgomente degli altri, compresa quella di Puffo, fugano ogni dubbio.
Con un latrato il lupo mostra lunghe zanne scintillanti. I rapinatori, sguardo fisso su di lui, lasciano andare Puffo e pian piano indietreggiano, fino a svanire nell'intrico di colonne del portico.
Allora l'animale si volta verso di me e mi punta addosso gli occhi azzurri.
«C-cosa vuoi? V-via! Va’ via!»
La belva punta dritta avanti a sé e s’incammina, svanendo nella notte.
«E quello cosa cazzo era?» grida Puffo.
«Non lo so.» Era il lupo della maglietta di quel tizio. Io l’ho pensato e lui è apparso. «Andiamo a dormire, che è meglio.»

Nessuno dei due apre bocca per tutto il tragitto, ma un pensiero fisso mi tormenta, passo dopo passo, come un ronzio sommesso che solo io posso sentire: Quel lupo l'ho evocato io!

giovedì 26 dicembre 2013

Cenere alla cenere

Buonasera a tutti! Ora, ho letto i vostri post e sì, anch'io ho un bel simbolo come il vostro. Per prima cosa mi sembra giusto presentarmi: mi chiamo col mio nome, ho 21 anni e sono un pasticcere! Detto questo, tutto è cominciato con un sogno, un paio di giorni fa.
Camminavo nella nebbia, attorno a me vi erano solo alberi rinsecchiti, neri e tetri (insomma, un po' una classicata, ma mica decido io cosa sognare). Nevicava, o almeno così sembrava, e i miei piedi nudi affondavano in un piano soffice e grigio, a tratti chiaro e a tratti quasi nero. Il cielo era inesistente, almeno così mi sembrava. Arrancavo senza meta, come un'anima in pena, questo lo ricordo bene. E ricordo anche che qualcuno mi parlava, sussurrava parole senza senso, non sapevo se si trattava di una lingua sconosciuta o semplicemente parlava troppo piano perché potessi capire le parole. Mi sentivo male, di certo quello sembrava in tutto e per tutto uno dei miei sogni deliranti da notte di febbre.

Quando finalmente mi sono svegliato ero solo madido di sudore e avevo un orribile gusto in bocca. Qualcosa di peggio del classico sapore post-notte. Mi sembrava di aver mangiato un bel pezzo di carne bruciata, di quelle che ti lasciano schifato per un quarto d'ora. Mentre pensavo tutto questo spegnevo la sveglia (erano le cinque e mezza, come ogni mattina quando devo alzarmi), e per prima cosa sono andato a bere dell'acqua per togliermi quel sapore orrendo. Ma non andò via subito, ce ne volle un bel po'. Poi mi accorsi del simbolo, stampato in un bel rosso scuro sulla mia lingua. Subito non volevo crederci, non potevo crederci. Eppure era lì, mentre mi facevo una linguaccia allo specchio, come a deridere me stesso.

Da quella mattinata, mentre vado al lavoro, devo farmi un tratto di strada a piedi sotto la pioggia. Quando l'acqua mi bagna la pelle, questa scende su di me in gocce scure, come se il mio corpo la sporcasse. Ah, e ho scoperto che posso ridurre in cenere le cose toccandole. Finora ci sono riuscito con cose come fogli di carta, qualche foglia e pure i miei adorati guanti in pelle. Visto che dopo due giorni ormai incenerire mi viene automatico come respirare, ora sto imparando a controllare la cenere che produco.

Sapevo che prima o poi qualcosa avrebbe radicalmente cambiato il mondo, ma non avrei mai potuto sperare che io ne facessi parte. Non credo che questo... dono venga da Dio, Allah o una qualche altra divinità, penso semplicemente che, per come io vedo il Caos, tutto può accadere ovunque e in qualsiasi momento. Stavolta è accaduto a me, e a quanto pare a voi, e tutte cose assurde. Nel mio caso, sono esaltato ed euforico come non lo ero mai stato in vita mia. Ho scoperto di poter produrre e controllare la cenere... diciamo che mi sento un po' speciale! Detto questo, immagino sia doveroso tenere aggiornati i miei simili su cosa farò. Se non ve ne frega, tranquilli, ci sono parecchio abituato. Per ora vi saluto, e chiamatemi con l'unica parola che ho capito del mio sogno.

Samael

Primo accesso

Sapevo di trovare qualcosa in rete, era impossibile che non ci fosse almeno un blog al riguardo, siamo nel 2013, ormai c'è un sito anche per le marche di tombini. Pensavo fosse una cavolata, invece sembra che gli altri utenti abbiano un segno identico al mio, quindi tanto vale parlarne qui.

Intanto vorrei tranquillizzare gli ipocondriaci del blog, non credo sia una qualche malattia, né un'infezione di qualche tipo o parassita. Sono rimasto almeno un'ora e mezza su internet per vedere se fosse qualcosa di questo genere.
Non so voi, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente questo pomeriggio, stamattina invece pensavo fosse solo ad una specie di bruciatura. Ma andiamo con ordine.

Come vi dicevo più su, l'ho scoperto stamattina, ma per puro culo; mi stavo facendo la doccia e quando sono uscito dal box mi sono accorto di aver dimenticato l'accappatoio dall'altra parte della stanza. Non succede spesso, casa dei miei è gelida, e io sono freddoloso. Faccio un paio di passi per andare a prendere l'asciugamano grande, e lì lo vedo, sulla scapola sinistra. Abbiamo uno specchio molto grande in bagno, normalmente mi infilo subito l'accappatoio e cerco di asciugarmi il più rapidamente possibile quindi spesso non mi rendo conto di tagli o graffi che mi faccio in posti che non sono normalmente a portata di vista.
Questo era strano, non mi ricordavo di essermi fatto qualcosa alla schiena, ho provato a grattarmi, ma non mi prudeva, era come una cicatrice da bruciatura abbastanza vecchia. 'Sticazzi, ho pensato, sono andato al PC e ci sono rimasto tutta la mattina.
Sì, sono disoccupato, strano vero? Poi di questi tempi. Era quasi l'ora di pranzo quando mi è successa una cosa strana, abbastanza strana, non tanto quanto alcune cose che ho letto qui, ma comunque particolare.

Casa dei miei è piuttosto vecchia, non un rudere, ma almeno degli anni '70; la porta d'ingresso del nostro appartamento è abbastanza sottile e poco isolata, si sente qualsiasi cosa succeda nella tromba delle scale, in più, come cambia la pressione dell'androne, perché qualcuno apre il portone d'ingresso, sbatte rumorosamente. Insomma una cagata di porta. Tutto questo ve lo dico per farvi capire come io mi accorga del passaggio di ogni singolo condomino del palazzo, non perché abbia poteri di sorta, o almeno non di quel tipo.

Insomma, deve essere entrato qualcuno. In genere non ho idea di chi o cosa entri nel palazzo, né mi interessa, ma in quel momento ho avuto una specie di flash. Sapete quando vi torna in mente qualcosa? Qualcosa che magari volete dire a tutti i costi a un vostro amico, ma proprio in quel momento non vi viene? Poi il giorno dopo, facendo tutt'altro vi torna in mente. Beh così, uguale. Solo che io non avevo niente da ricordare e che il codice fiscale del mio vicino e i dati del suo gestore telefonico non li ho mai saputi. Voglio dire, manco so come fa di cognome il mio vicino!
E invece me li ricordavo a memoria ed erano quelli, non me li ero inventati, ero certo che fossero giusti esattamente come so che è giusto il mio codice fiscale quando lo scrivo in un documento.

Ora devo in qualche modo verificare, non le informazioni, quelle sono certo che sono giuste, voglio vedere se mi capita nuovamente una cosa del genere, nel caso vi terrò aggiornati.

A presto!
D.

martedì 24 dicembre 2013

Piove sempre sul bagnato

E' bastata una ricerchina in rete ed eccovi qui. Un bel carrozzone di fenomeni d'altri tempi: abbiamo sociopatici per ogni gusto, "emo" con la linea tratteggiata pronta al taglio sul polso, persino il represso cronico che dà di matto pensando di essere un dio. Ovviamente non poteva mancare il nano.
Prima che saltino fuori l'uomo cannone e la donna barbuta, meglio se scrivo qualcosina anche io.

Sono un ragazzo fortunato. Letteralmente.  E lo sono da un bel po' di tempo. Sono nato in una famiglia ricca, sono bello, alto e biondo, ed ho potuto sempre fare quel che mi pareva e mi piaceva, ottenendo anche notevoli risultati. Frequento posti fichi, con gente importante, ho una bella macchinina e un sacco di amici. Forse vi sembrerò uno sbruffone vanaglorioso, ma questa è la semplice verità dei fatti. La cosa divertente è che quello che è successo non ha cambiato niente, anzi!

E' accaduto tutto un paio di settimane fa, forse la stessa notte citata da altri. Pioveva di brutto, stavo andando alla festa della mia università privata, festa in cui mi avrebbero premiato per il torneo di tennis autunnale. Vinto, ovviamente. Guidavo di fretta, il locale era un po' fuori mano ed ero in ritardo. Poi cazzo, quei tornanti erano proprio invitanti per la mia macchinina. Solo che era qualche giorno che mi sentivo strano: un po' di malessere diffuso, dolori qui e li, riflessi non proprio brillantissimi. In quel momento pensai che forse mi stavo prendendo l'influenza, e che magari avevo esagerato un po' con l'aperitivo. Anche le luci forti mi davano fastidio, soprattutto quelle delle altre auto; figuratevi cosa è successo quando un fulmine si è abbattuto a poche centinaia di metri da me. Ricordo la luce bianca fortissima, il boato assordante, l'odore delle gomme bruciate che stridevano, il corpo che formicolava  e il cuore che martellava fino a farmi male.

Quando sono tornato in me ero illeso, ed incredibilmente non mi ero schiantato contro nulla. La mia macchinina si era fermata sul ciglio della piazzola di sosta, vicino il parapetto, a pochi metri dalla scarpata. Poi comparvero le luci azzurre lampeggianti. Vidi scendere dalla volante questo tipo, con una mantellina da pioggia sopra un'uniforme, seguito da un grosso cane scodinzolante. Mi viene incontro, accertatosi che stavo bene mi fa scendere - sotto la pioggia, il coglione! -  e col suo vocione da zotico di campagna mi fa: "Sei nei guai. Patente e libretto, intanto."

 "Agente non potrem.."

"Sei drogato?"

"Macchè, è solo che piove..."

"Quelli come te finiscono ad ammazzar la gente, lo sai?"

E intanto il suo sacco di pulci mi toccava col suo nasone lurido. Il problema era che qualche "sostanza ricreativa" la avevo anche, e il cane l'avrebbe fiutata. Quello stronzo non mi lasciava nemmeno parlare, mi stava pure perquisendo, i dolori aumentavano, la pelle mi bruciava, mi stavo inzuppando e mi sentivo intontito come non mai.

"Quanto vorrei che si levassero di torno." pensai.

E accadde. Di punto in bianco il cane scappò via scodinzolante verso l'auto del padrone, mentre questo si scusava per il disturbo sorridendo e rimontava in auto.
Da allora mi è capitato altre volte: le persone, persino gli oggetti, rispondono ai miei desideri. Lo facevano anche prima, devo dire, ma mai così. Forse di voi D.E.M. può capirmi, solo che amico, ti fai troppe pippe mentali. Divertiti.

Ah sì, il simbolo. Ne ho uno anche io, proprio al centro del petto. Nemmeno mi dispiace troppo la somiglianza con quello delle SS. Del resto ci sono sempre stati uomini migliori di altri. A proposito, pare che la mia famiglia discenda da una dell'antica nobiltà tedesca, quindi facciamo così: potete chiamarmi il Barone.
Non so ancora bene come e quando funzioni questa sorta di potere, ma sperimenterò a fondo. Vi farò sapere come va, voi intanto arrovellatevi pure a cercare di capire cos'è successo. Ho già qualche ideina, e me la spasserò. Le cose possono solo migliorare per chi se lo merita. Mio padre amava dirlo: piove sempre sul bagnato.

Il fascino del lato oscuro

Questo blog è un miracolo. Ne avevo assolutamente bisogno, perché se non lo racconto a qualcuno impazzisco. Sì, potrei confidarmi con gli amici più fidati, o con la mia famiglia, ma non credo che lo farò. Perché il mio potere, quello che ho scoperto di avere, beh.. è molto inquietante. E molto, molto seducente. Se fossimo in un fumetto, probabilmente rischierei di diventare un supercriminale, o forse no, non lo so.
Sto divagando, lo so. Per tornare al punto della questione il mio nickname sarà D.E.M. che sta per “deus ex machina.” Pretenzioso e arrogante, forse sì, ma state a sentire.
È iniziata otto giorni fa. Mi sono alzato con un mal di testa bestiale, io che i mal di testa non ne ho mai sofferto. Mi sono comunque vestito, fatto colazione e sono andato al lavoro. Era il mio ultimo giorno di contratto in fabbrica, l’ennesimo di una lunga serie, maledetta crisi. Non dirò che cosa producevamo, preferisco non dare indizi, diciamo che la fabbrica era grande e lavoravamo a turni. Il posto  non era male, mi trovavo bene, tolti i soliti colleghi rompiballe e il capoturno, diciamo “antipatico”.
Nella condizione in cui mi trovavo quella mattina andavo molto a rilento. Al mio collega che lavorava al macchinario con me avevo detto come mi sentivo, e lui si era offerto di coprirmi. Il problema era il capoturno. Vedendomi lavorare con una certa fiacca mi si avvicinò e mi urlò nell’orecchio: «Va bene che è il tuo ultimo giorno qui, XXXXXX, ma se non muovi il culo col cazzo che ti richiamiamo, hai capito?»
«Lascialo stare, XXXXX, stamattina non sta bene.» mi aveva difeso il mio collega.
«Non ce l’ha un’aspirina a casa sua?» aveva replicato il capoturno, per poi andarsene.
Per me era troppo. Non sono un tipo violento, lo giuro. Avrò fatto al massimo una rissa in vita mia, ed ero pure l’aggredito. Ma in quel momento sbottai. Mi girai e gli urlai: «Ma datti una martellata sulle palle, stronzo!»
Il capoturno non perse un attimo: prese un martello dal carrello degli attrezzi lì accanto e, con precisione chirurgia, si diede una violenta martellata sui gioielli. Un urlo lacerante superò il rumore delle macchine. Una dozzina di persone, compreso il mio collega, corse a prestare soccorso all’uomo, mentre io ero rimasto impietrito al mio posto. Non potevo essere stato io, mi ripetevo, non ero stato io. Come potevo aver fatto? Il mio collega mi fissava, e io lo fissavo di rimando, ma il mio sguardo sgomento evidentemente diceva tutto. Tanto più che, quando il capoturno si riprese, non seppe spiegare l’accaduto. Non si ricordava del litigio con me e di quello che gli avevo urlato.
La dirigenza archiviò il tutto come “incidente” –incidente? – e io terminai il mio turno senza altri problemi. Salutai tutti – compreso il mio collega che continuava a fissarmi in modo strano - e me ne andai subito a casa.
Mentre tornavo, rimuginando sull’accaduto, mi accorsi che qualcosa mi bruciava all’altezza dell’anca. Fermai l’auto al lato della strada e mi scamiciai. All’altezza dell’anca sinistra c’era una specie di segno, non capivo se una voglia o un’ustione. Sembravano due fulmini che si concatenavano, o come hanno detto gli altri, il simbolo del DNA. Era inquietante. Poteva essere collegato a quello che era successo? No, pensai, era stato un caso, non poteva essere.
Mi ricordai che dovevo prendere il pane. A casa i miei, con cui vivo, non c’erano quel giorno e perciò dovevo provvedere da me. Parcheggiai dall’altra parte della strada rispetto al panificio ma, mentre stavo per attraversare, un motociclista della domenica mi sfrecciò davanti come se stesse partecipando a una gara al Mugello. «Ma perché non ti schianti contro un palo, pirata della strada!» gli urlai.
Lui, senza colpo ferire scartò e tirò dritto contro un palo della luce. Mentre attorno a me si scatenava il finimondo, una parte di me inorridiva mentre l’altra si fregava le mani con gioia sadica.

Ero io. Ero stato io. Io avevo quel potere. E adesso? Che faccio?

Foglie miracolose?


Finalmente.
Questo ho pensato quando ho trovato il tuo blog.
Son diversi giorni che mi spacco la testa per trovare una risposta a quanto mi è successo. Finora ho girato a vuoto ma a quanto vedo da quel che hai scritto tu e altri dovrei essere arrivato nel posto giusto per iniziare a capirci qualcosa.
Cos’era, venerdì? Sì neanche una settimana fa. Ero in giardino col mio piccoletto.
«Papà, andiamo a fare le palle della neve?» E così siamo usciti. Non che ve ne fosse tanta, ma non me la sentivo di contrariarlo. Dopo tutto, solo perché io sono incazzato col mondo, non vuol dire che debba negare un poco di gioia al mio cucciolo.
«Comincia io!», urla mentre una polpetta di fango e ghiaccio impatta sui miei pantaloni. Sorrido.
«Poi lo dici tu a mamma come ci siamo sporcati vero?», gli rispondo mentre cerco di comporre una sfera soffice e grande quanto una boccia da bowling.
«T’è vist ac ciel nir? L’ariva la fin de mond!» Il mio vicino di casa -qualcosa a metà strada tra Arrigo Sacchi e il commissario Basettoni- si sporge dalla rete di recinzione indicando il cielo minaccioso. Guardo le nubi, nere da far spavento, e i primi fiocchi che calano ondeggiando verso terra.
«Magari!» rispondo al vecchio. “Magari davvero” penso: disoccupato e pieno di debiti. Se i Maya avessero sbagliato di un anno non mi dispiacerebbe. I miei problemi sarebbero finalmente risolti.
«Pupo, rientriamo che nevica!»
Mio figlio mi guarda sconsolato.
«Ancora una!», grida mentre nuovo fango si schianta sulla mia felpa.
«L’ultimo e andiamo!»
E mentre raccolgo la mia mega palla accade il fattaccio che mi turba da una settimana.
Un ramoscello appuntito, o forse una scheggia del pavimento del patio, mi apre il palmo della mano sinistra per tutta la lunghezza. Non è profondo ma inizia a pisciar sangue con piacere.
«Papà ti sei taiato?»
Mio figlio è molto sensibile alla vista del sangue, come suo nonno. Per scherzare raccolgo una foglia da terra. È ancora verde, deve averla staccata dalla siepe il maltempo del giorno prima.
«Non è nulla vedi? Papà ci mette un cerotto e guarisce subito!»
Mio figlio ride.
«Non è un cerotto. Socco!» e si avvicina curioso «Tolgolo che ci bacio e passa tutto!»
Sorrido e vado per togliere la foglia. Me la ricordavo più verde. Ora è secca e raggrinzita di un marrone ruggine.Titubante la tolgo sperando che il flusso di sangue si sia fermato e non impressioni troppo il mio bimbo.
Mi prenderete per pazzo e per un pallista ma il taglio non c’era più!
«Visto pupo? Guarito!» dico a mio figlio cercando di mascherare il mio sbigottimento. Né ferita né bruciore. Tutto svanito e la foglia mi si è sbriciolata tra le dita.
Ho fatto qualche ricerca on line ma niente. Nessuna spiegazione per queste improvvise guarigioni, a meno che non scantoni in D&D o in Wolverine e compagnia bella!
Che cavolo c'entra tutta la mia storia col tuo blog? Niente, a parte due coincidenze. Tutti avete notato delle “stramberie” che vi son successe in questi giorni.
Ma è soprattutto il nome del tuo blog e l’intervento di [Perspicua] che mi hanno fatto fermare qui. La mattina dopo il fattaccio ho trovato uno strano segno sulla mano “incriminata”. A me sembra una sorta di rombo con dei corti segmenti che partono dai vertici superiore ed inferiore. E' irregolare, leggermente in rilievo, come fosse una cicatrice. Ma il taglio che mi ero fatto la sera prima era lineare… ed era sparito, ne sono sicuro.
'Sto segno invece è una settimana che sta li. Però non prude. A volte mi sembra si ingrossi, ma mia moglie dice che mi sto facendo prendere dall’ansia e che dovrei  farmi vedere da un dermatologo. Ovviamente non sa nulla del retroscena. Ci manca solo che mi pigli per pazzo. Dopo che ho perso il lavoro, se perdo pure la famiglia sono finito!
[Perspicua] tu l’hai fatto controllare alla fine? Che ti hanno detto?

lunedì 23 dicembre 2013

La fai facile tu

Il coniglio fa paura? Il coniglio fa paura? La fai facile te: non sei alto 30 centimetri! E non ti venga in mente di deridermi. Sarò alto un bambolotto, ma ho conservato tutta la mia forza e sono sempre 20 chili che ti sparo in faccia!

Sì, perché sono alto 30 centimetri e peso 20 chili. Lo so, c’è qualcosa che non porta, ma non è certo questo io mio problema più grande. Anzi, a queste altezze ogni problema è grande.

Mi sono svegliato così una settimana fa, e da allora sono incastrato a queste dimensioni. Per ora vesto i vestiti del bambolotto di Max Steel che avevo sopra la scrivania - un problema risolto. A lavoro ho detto che sono in malattia, in famiglia che sono fuori per lavoro. Mi sono trincerato nel mio appartamento e non metto fuori il naso da giorni. Ma sono agli sgoccioli: le feste sono vicine, anzi, vicinissime, e il frigorifero è ormai vuoto. Ho pensato di darmi per morto, ma non posso dare questo dolore ai miei. Ho anche pensato al suicidio, ma ho scoperto che, con le mie dimensioni, sono molto più resistente, quasi fossi fatto d’acciaio. Insomma - non credo che vi sia mai capitato, ma - vi assicuro che buttarsi sotto a un camion e cavarsela con una spolverata ai pantaloni ti fa vedere il mondo da una prospettiva migliore.

Passo le mie giornate a cercare su internet, sperando di trovare qualcuno nella mia stessa situazione. Sì, anche io ho uno strano segno. Vi ho trovati perché, mentre tutto di me diventava minuscolo, la cicatrice che avevo sopra l’ombelico - praticamente la stessa che avete descritto voi - è rimasta delle dimensioni originali e ora mi arriva fino al collo.

Continuerò a leggervi, spero che qualcuno di voi si sia trovato nella mia stessa situazione, magari riesce a spiegarmi come posso tornare alle mie dimensioni normali. Siete la mia ultima speranza.

Max Steel

Non si è mai soli



Per quanto si possa essere diversi o isolati, non si è mai veramente soli. Trovi sempre qualcuno ferito come te, pazzo come te, fantasioso come te, solo come te, eccetera, chiunque tu sia.
Ma qualcuno marchiato come te… quello non me lo aspettavo.
Internet è la mia dannazione: ogni volta che ho un problema, un dubbio o una curiosità mi fiondo su Google. Però questa volta, a quanto pare, mi ha dato la risposta più utile e agghiacciante di tutte, lasciandomi trovare questo blog. Ho letto le vostre testimonianze e ho capito che qualcosa sta succedendo.
Mi vengono in mente gli X-men e i salti generazionali, come vengono descritte le mutazioni. Sia così anche per noi?
Di certo non avrei mai pensato che questa specie di rombo o runa, che voi descrivete come una S o una SS, rappresentasse tanto.
In verità non so cosa voglia dire per me, è tutto così confuso. È accaduto tutto stamattina, una come le altre, dopo essermi alzata pigramente con l’idea di studiare per l’imminente sessione d’esami. Idea che, tra parentesi, è andata in fumo.
Quando ho l’opportunità di stare a casa, specialmente se da sola, passo ore in pigiama, a malapena consapevole di essere al mondo, al massimo crogiolandomi davanti al fuoco della stufa. È stato solo perché mi stavo stropicciando gli occhi con la mano sinistra che ho notato quel simbolo nella parte interna del mio polso. Per un assurdo istante ho pensato di aver avuto un attacco di sonnambulismo e aver tentato di tagliarmi le vene.  Va bene lo stress, ma prima di arrivare al livello d’allucinazione del Cigno Nero penso ce ne voglia!
In ogni caso non mi sentivo diversa dal solito. L’unico segno, oltre quello sul polso, era (ed è) un persistente desiderio di mutare, d’esser qualcun altro da qualche altra parte, per sentirmi libera. Non che sia una novità: l’ho sperimentato più e più volte nei miei modesti 22 anni di vita. Però passando davanti allo specchio dell’ingresso, diretta verso al bagno per disinfettare quei tagli, “vidi” la cosa più assurda della mia vita.
Devo tornare un po’ indietro, prima di descriverlo. Dovete sapere che film e libri sono la mia passione e mi entrano sempre nelle vene, fossero anche monotoni. I personaggi di quelle storie s’impossessano dei miei pensieri e finisco col fare sogni molto intensi: essere in storie simili a quelle lette, essere un personaggio che potrebbe starci in esse, impersonare uno dei protagonisti stessi, leggere un seguito inesistente… insomma, penso abbiate capito.
Anche stanotte, come quasi tutte le notti, ho fatto un sogno. Il protagonista, per semplificare, era una sorta di fantasma. E stavo ripensando al mio sogno, poco prima di scoprire il simbolo. Però insomma, giunta davanti allo specchio vidi una cosa impossibile o, per meglio dire, non vidi. Non mi riflettevo.
Mi sono fermata all’istante, credendo che mi sarebbe venuto un colpo. Fossi stata come le mie amiche avrei cacciato un urlo, ma la mia voce svanisce quando sono traumatizzata. Ho sbattuto le palpebre un paio di volte riflettendo sul fatto che non fosse possibile tutto ciò e poi di nuovo ero lì, al mio posto, che mi fissavo negli occhi.
Non sapevo cosa fare, cosa dire, cosa pensare. Per un istante supposi di star ancora dormendo. Forse lo stress di questi giorni aveva raggiunto l’apice.
Per sdrammatizzare la situazione a me stessa, pensai che finché non mi fossi trasformata nella me cattiva sarebbe andato tutto bene. In quel momento vidi la me nello specchio mutare. Capelli, pelle e occhi si scurirono. Con paura ho notato che non era solo nello specchio che ero diversa, ma anche guardandomi direttamente le mani e i capelli.
Pensai un’altra volta che non fosse possibile e ancora sono tornata normale.
Sono certa che non siano allucinazioni. Però non capisco. Una parte di me trova tutto questo estremamente esaltante, ma non so se sia quello che desidero. Spero di trovare risposte con voi.
Ah, ultima cosa. Camufferò il mio nome solo per metà, chiamandomi Maria Grigiostella. Chiamatemi pure solo Maria.

sabato 21 dicembre 2013

Semon in cerca d'aiuto

Ok, sono contento di aver trovato questo blog. Spero che non sia una di quelle cavolate tipo gdr online o come cavolo si chiamano perchè qua la situazione è veramente seria. Stamattina mi sono svegliato dopo una delle mie solite sbronze (cioè non è che sono un alcolista, è solo che certe volte alzo il gomito), ero a torso nudo e mi sono diretto verso il bagno per lavarmi i denti e togliermi dalla bocca il sapore di sigarette, troppe, misto birra, troppa anch'essa. Mentre ero chinato per sputare ho visto sulla spalla un graffio o una specie di ferita, ma non mi sono preoccupato subito, solo osservandola meglio ho notato che proseguiva verso la scapola e formava uno strano simbolo. “Che cazzo ho combinato?” mi son detto tra me e me, ma non mi sono stupito più di tanto, mi capita di ubriacarmi e schiumare, anche di tagliarmi (sì, ok, sono un bipolare, prendo psicofarmaci e li mischio all’alcool, che ci volete fare?) e quindi, come al solito, ho fatto finta di niente… La casa era vuota, i miei erano andati a fare la spesa (si, ho 31 anni e vivo ancora con i miei, che vi posso dire? Sono un fallito? Lo so…) e mi sono diretto in cucina per fare colazione, sperando di togliere un po’ il senso di nausea  tipico di una serata di eccessi.  
Ho preso la teiera di metallo con cui di solito facciamo il the e ho avuto una strana sensazione, una specie di brivido lungo la mano con cui avevo afferrato quella cavolo di cosa, così ho guardato le mie dita e ho visto che i polpastrelli erano sporchi di metallo. Mi sono quindi fermato ad osservare il mio palmo destro per capire cosa cavolo fosse quella sostanza quando ho visto che si stava dilatando! “Ok, sto avendo delle allucinazioni!” è stato il mio primo pensiero e sono quindi corso a prendere il cellulare per cercare di chiamare la mia terapista, tutto questo mentre il metallo scorreva lungo il braccio. Peccato che una volta preso in mano il mio Experia, in preda all’agitazione, l’ho stretto troppo, spezzandolo! Non sapevo più che fare! Capite? Io che non riesco neanche a sollevare in palestra più di 10 kg lo avevo frantumato solo stringendolo! Non sapevo più che fare! Ho cominciato a muovermi in preda all’agitazione e alla fine sono tornato in bagno, davanti allo specchio, dove ho visto che tutto il mio corpo (e quando dico tutto intendo tutto) era diventato di metallo! Mi sono coricato per terra sul tappetino e ho cominciato a piangere in posizione fetale (sembra ridicolo, lo so), fino a che, dopo pochi minuti, il mio corpo non è tornato normale! So che non era un’allucinazione, so che è successo qualcosa, ma non so che cosa!
Ho trovato questo blog cercando a casaccio nella rete, vi prego ditemi che non è uno scherzo! Ditemi che anche voi avete veramente avuto questi problemi, ne va della mia fragile sanità mentale! Ho provato a toccare altri oggetti, matite, bottiglie e cose così, ma alla fine questo effetto si attiva solo con il metallo, di qualsiasi genere, e sembra diventare sempre più immediato ad ogni tentativo! Per ora sto cercando in tutti i modi di entrare in contatto con  materiali neutri, ma non so fino a quando potrà durare, per fortuna a casa abbiamo le forchette con il manico in plastica… Ho paura a rivolgermi ad un medico perché temo che mi facciano un TSO, a causa dei miei problemi pregressi, cosa fare? Mi sento al centro degli occhi di tutti, mi sento osservato anche qua dentro casa mia, ma come faccio ad essere sicuro che sia una sensazione reale o solo un sintomo del mio disturbo? Vi prego…AIUTO! - Semon

Essere o non essere?

Sapete cosa vuol dire perspicua? Di solito si definisce così una risposta, nel senso di chiara, limpida. Mi piaceva tanto l'idea di attribuirmi quel significato, visto che ormai sono diventata trasparente. Anonima, scialba? No, proprio trasparente agli occhi dell'umanità. Mi alzo, doccia, giacchetta, caffè, vado in un posto ma nessuno mi vede. Due le ipotesi: o credo di andare e in realtà non vado, oppure la gente non mi vede perché sono invisibile. Se mi sono fermata a leggere i vostri deliri su questo blog è perché sono sola, lontana mille chilometri da casa, senza uno straccio di amico o amante a tenermi la mano mentre cerco di convincermi di non essere pazza da legare. E' lo stress, mi ripeto da mesi, è lo stress a farmi pensare che mi accadano cose che non sono possibili. Da quando è affiorato sul collo un segno rosso, come una doppia s intrecciata. Ho pensato ad una dermatite, inizialmente, sperando che passasse senza dover consultare un medico. Non troverei un buco in agenda per andare a farmi una visita neanche piangendo. Invece è sempre là, forse lievemente più appiattita. La copro con i foulard perché lavoro in televisione, non vorrei che da casa avessero l'impressione di una cronista/vampira, con i punti sul collo. Mi ci manca giusto quello, già credono tutti che porti male, in redazione. Il caporedattore mi ha trasferita con un calcio nel sedere proprio per farmi cambiare aria, anche se formalmente si tratta di una promozione. Inviata speciale per una serie di omicidi avvenuti nelle campagne di una cittadina di centomila anime. Lasciare la metropoli per infilarmi in un buco di posto dove sembrano aver scoperto ora l'aperitivo mi è costato caro, ma non avevo alternative. Ho le bollette da pagare e una particolare debolezza per le borse firmate: quindi devo lavorare, e parecchio. L'unico elemento positivo è che faccio base in una tv locale dove mi trattano bene, come se fossi importante. I cameraman che si alternano al mio fianco sono dei bravi ragazzi, semplici, roba che da noi non esiste più. Insomma, trovo quasi il verso di farmi piacere la situazione, quando una mattina tocco il fondo. Faccio il giro di nera (ovvero le telefonate alle forze dell'ordine per sapere se va tutto bene) e mi dicono che è saltato fuori un altro cadavere. Sempre una prostituta, di circa venti anni, uccisa con un coltellaccio da macellaio dopo un rapporto (uno?), lasciata sul ciglio della strada con una rosa rossa in mano. Avendola mollata in bella vista sulla provinciale, ormai, la cosa è sulla bocca di tutti. E poi c'è la rosa, il suo marchio, il folle ha colpito ancora. Va beh, mi danno l'indirizzo, telefono al cameraman chiedendogli di raggiungermi direttamente là. Arrivo prima che posso, ma vedo già un sacco di telecamere puntate sulla strada. Male, roba da prima pagina, coi titoloni. Squilla e vibra il telefono che ho in tasca, il caporedattore mi chiede un collegamento in diretta; mandano un furgone regia. Sento la schiuma salirmi alla bocca. Non vi ho detto che odio il mio lavoro, vero? Lo odio, detesto con tutta me stessa andare in onda. Mi fa schifo rivedermi, mi sento una deficiente, con una voce orribile. E non è una cosa recente, scappavo anche da piccola di fronte all'obiettivo. Sognavo di diventare una giornalista, di quelle brave, che scrivono belle al chiuso in una redazione piena di fumo. Invece sono capitata in una televisione dove mi fanno condurre anche il telegiornale. Non so come il mio cuore abbia retto allo stress, in tutti questi anni. Sono riuscita a non farmi mai venire un attacco di panico in onda, ho un autocontrollo incredibile, ma temo sia solo questione di tempo. I collegamenti in diretta sono la cosa che detesto di più, oltre al tg. Devi star ferma con in microfono in mano e dire cosa sta accadendo, ovunque tu sia. Con la gente intorno che ti guarda… Vedo i colleghi tenuti a distanza dal cadavere, già coperto con il telo bianco, e li raggiungo. Sto per salutarli ma qualcosa mi blocca. Nessuno si è voltato verso di me, nemmeno impercettibilmente. Agito la mano con il palmo ben aperto, con un gesto da mimo; nulla. Mi scappa da ridere. Alzo il dito medio e lo metto davanti al naso di una collega grassottella che pensa di sapere sempre tutto lei. Niente, come se non esistessi. Nel frattempo arriva il mio cameraman, che saluta e chiede se mi hanno vista. Rispondono in coro di no. Le gambe mi tremano, sono sul punto di vomitare (il vomito si sarebbe visto, secondo voi?). Torno con passo incerto verso la macchina, apro la portiera dopo un paio di tentativi andati a vuoto e mi infilo sul sedile posteriore, sdraiandomi. Il cellulare inizia a squillare. È il cameraman che mi cerca. Scatto in piedi, come se qualcuno mi avesse schiaffeggiata con forza. Mi vede e si avvicina prendendomi in giro. «Non si dorme sul lavoro», aggiunge a bassa voce. Mi vede, capite? Sono tornata “visibile”. Scendo frastornata, lo saluto e accenno un ciao da lontano agli altri, che ricambiano. Quindici minuti al collegamento in diretta, con la mente fissa su quello che è successo, col terrore di sparire davanti alla telecamera. Recupero un po' di autocontrollo, fila tutto liscio. Sono tornata in albergo per buttarmi in rete: ho trovato voi, che mi sembrate messi male come me. Avevo già avuto qualche problema nei mesi passati, ma ora mi terrorizza anche la sola idea di mettere il naso fuori. Voi pensate di parlarne con i vostri familiari o per ora tacete? Di sicuro andrò dal medico per farmi vedere quella macchia sul collo, non vorrei che fosse il segno di qualcosa di grave, che mi sta fulminando il cervello. 

venerdì 20 dicembre 2013

Il coniglio fa paura...

Non pensate che mi sia aggregato a questo patetico Blog per necessità di confronto. Non ne ho alcun bisogno, davvero. La povera Sibyl dal piedino rotto, o il tremebondo Tiferet o come diavolo si chiama, che si vede da lontano. Cosa volete? Non sapete accettare un dono? In fondo è Natale!

Io ho atteso questo momento un'intera vita! Come lo so che sarebbe successo? Non ne ho idea; lo so e basta. Ho aspettato per anni il mio momento. L'ho aspettato seduto alla mia scrivania, l'ho atteso con il bicchiere di plastica in mano alle cene aziendali, in fila alle poste.
Vermi, siete inutili vermi.
Il fatto che lo condivida qui è solo per fare in modo che un "sacro terrore" possa serpeggiare in questo mondo di merda: è nato un dio!

Perché? Perché?! Sforzatevi! E' ovvio! Perché sono stanco. Sono stanco di voi, di me, di tutto.
Non darò dettagli, non sono stupido. Sono un uomo, e questo potete tranquillamente saperlo, e non sono chiaramente un giovanotto. Quando si lavora in un ufficio, per anni, quando si subisce la società, la vita, gli altri, il denaro, alla fin fine qualcosa dentro di te si rompe.
Morale? Legge? Affetti? Inutili, patetici, vuoti concetti.
Quello che ci tiene buoni è solo la paura! La paura del giudizio altrui, la paura di finire sotto un ponte senza soldi, la sottile sensazione di non riuscire, di essere scacciati. Adeguarsi, sottomettersi, basso profilo.

Cosa accade se il pavido coniglio scopre di avere delle feroci zanne? Dei taglienti artigli? Non fuggirà più, mai più.

Pioveva l'altra sera. Pioveva che Dio la mandava. Ero tornato a casa, l'ennesima sera, l'ennesimo straordinario in ufficio, la consapevolezza senza sorpresa che le ferie di Natale sarebbero andate a puttane. Stavo per rientrare nel vialetto di casa, aspettando il maledetto cancello automatico, quando innestai la retromarcia e schizzai via.
Il cielo si squarciava di bianco e il tuono mi riempiva le orecchie. Urlavo? Non lo so. Vedevo i lampioni proiettare le loro luci ambrate tra gli schizzi e il rumore stridente del tergicristallo. Luci e ombre, luci e ombre. Non riuscivo a pensare ad altro! Se siamo fatti per la luce, perché io da sempre vedo così bene al buio?! Accelerai schizzando acqua da tutte le parti.
Ero solo nella zona industriale: solo i lampioni, i quadrati giallognoli delle finestre, i marciapiedi come torrenti.

Mi ritrovai schiantato contro la recinzione di rete di un prefabbricato buio e dismesso. Il tergicristallo ancora andava ma l'airbag non era scoppiato. Avevo dato una bella testata al volate, e si era piegato, ma non faceva male: stavo bene, mai stato meglio. Uscii dall'auto, la pioggia non accennava a smettere, mi investì la faccia, il cappotto, i capelli: Dio ero vivo! Vivo e feroce! Vivo e immerso nel tepore dell'oscurità.

"Sta bene?"

Non capii subito. Ero ebbro. Guardavo il mondo attraverso la cortina di pioggia, ma non era l'acqua a farmelo vedere strano. Un'infinità di forme scure, rettangoli, triangoli, tremolavano tutto intorno a me: ero consapevole del buio, dell'assenza di luce.

"Si è fatto male? Come sta? Vuole che chiami un'ambulanza?"

Chi diavolo osava disturbarmi?! Chi si azzardava a interrompere i miei nuovi, vivificanti, pensieri?!
Mi voltai. Un uomo anziano, sotto un ombrello nero e spiegazzato, stretto in un maglioncino e con le pantofole. La barba bianca e mal curata. Un'essere inutile e fastidioso, preoccupato, occhi grigi infastiditi dal mio non rispondere. (Non ho bisogno di te, stupido uomo! Possibile che non riesci a vederlo? Dovresti fuggire, fuggire e non guardarti indietro, ma tu insisti.)

"Ha bisogno di aiuto?!"

Si protese a toccarmi, non potevo accettarlo. Allargai le braccia per divincolarmi da un contatto che, più di sempre, aborrivo. Basta! Basta! Basta con le vostre costrizioni, la vostra falsa attenzione! Basta!
Non so se gridai, o se pensai, o qualsiasi altra azione fisica.

Le ombre si mossero, le ombre agirono per me...

Spezzato. Morto. Scomparso.

La pioggia alla fine cessò. Io camminavo, stretto nel cappotto, camminavo e godevo dei ricordi.
E' finita l'epoca della paura. E' iniziata l'epoca del potere e del terrore, finalmente.
Quando arrivai a casa ero felice, non ci crederete, ma ero all'apice della gioia. Meglio del sesso, meglio del cibo, meglio di tutto. Sapevo che un giorno il Potere mi avrebbe raggiunto e io l'ho accolto come un'eucarestia oscura, come un sacerdote del buio. Mi toccai, per vedere se ero ferito. Trovai solo una sorta di graffio, una "s", ho visto che è successo anche a voi. Bene.

Tremate. L'era dell'Eminenza Nera è iniziata: il sole è morto.

mercoledì 18 dicembre 2013

Non lo so.

Non lo so.
Cioè… lo so il perché. Il perché sono qui.
Solo non so se sia il caso di parlarne, del mio problema. Cercavo il posto adatto per farlo e adesso che sono qui, su questo blog, respiro male e guardo il monitor e mi mordo le labbra e mi torturo le unghie… Ma ne voglio parlare, ne ho bisogno.
Ti ho trovata perché ti cercavo, dopotutto… Ho letto quello che hai scritto, Sybil. L’ho letto, e mentre lo facevo mi tremavano le dita, i polpastrelli instabili sui tasti. Ed era per me un sollievo sapere di non essere solo, ed era per me un incubo ripensare a ieri. Per me, che ho sempre avuto il controllo delle mie giornate, preciso e metodico. Io, che ho sempre avuto nella razionalità una maniglia sul vuoto. Sono confuso, ti chiedo di scusarmi. E sono in imbarazzo, anche per questo balbetto alla tastiera e sono incasinato e non si capisce cosa scrivo e dove voglio arrivare.
Se… No, aspetta. Lo scrivo chiaro e tondo, così ci capiamo: abbiamo vissuto un’esperienza simile. Sì, non proprio la stessa cosa. Un’esperienza strana. No, neanche. Folle. Come la tua per via del segno: quella specie di S che proietta un’ombra dietro di sé. Una S intrecciata, che pare la catena del dna. Oppure, come hai scritto tu, il simbolo delle SS. Te la racconto, la mia esperienza. Se riesco a farlo senza essere preso per pazzo. 
Il mio nick sarà Tiferet, non sto qui a dirti il perché, è una storia lunga, magari te ne parlerò in seguito. Ho trentatré anni, una vita semplice, giocata con discrezione. Fino a ieri. È da ieri che non dormo.
E ho sonno.
Parecchio.
Ma se chiudo le palpebre lo rivedo, e per ora è meglio stare con gli occhi spalancati. Potrebbe essere qua, dietro di me, anche ora.  
Ieri faceva un freddo niente male. Stava piovendo: buttava acqua dall’altro giorno, da lunedì. Odio la pioggia, destabilizza. Si rischia di perdere la bussola della giornata. Avevo in testa di uscire, di portare a spasso il cane. Ho un cane, si chiama Perry. Come Perry l’ornitorinco, non so se lo conosci… Non esce mai, poverino. Avevo idea di fargli prendere aria, e invece pioveva. Un sipario d’acqua che non si vedeva a due metri. I temporali sono così, hai voglia a fare progetti. Me ne stavo in piedi, le braccia incrociate dietro la schiena, spostavo il peso da una gamba all’altra, a guardare dalla finestra. Ho un cortile dissestato. È in arenaria. Nel senso che è ricavato direttamente dalla montagna. Anche le fondamenta della casa sono adagiate direttamente sulla roccia. L’arenaria si sfalda col tempo, risente dell’erosione. Il cortile si sta consumando. E io lo guardavo, dalla finestra, mentre la pioggia lo allagava, e pensavo che prima o poi lo avrei dovuto rimettere a posto, una bella colata di cemento, o piastrelle o chissà.
Sta di fatto che a un certo punto esplose il cielo, illuminato come fosse un’alba. E io buttai là un urlo. Immagina, immerso in pensieri lontani, all’improvviso, un lampo e poi un tuono feroce…
Così rimasi bloccato, la bocca spalancata, prendendo aria, e si appannò il vetro della finestra. Il cuore cavalcava. Dopo il boato, che si era mangiato tutti i suoni, gli unici rumori superstiti erano il ticchettare della pioggia e il battere furioso del mio sangue nei timpani. Pulii il vetro con la manica della felpa. Sì, lo so che non si fa, che rimane il segno… ma avevo visto qualcosa muoversi in cortile.
Ho un albero di melacotogne. E c’era del movimento, dietro al tronco nodoso. C’era anche buio però, e non vedevo bene. Lucidai gli occhiali. Li rimisi e aggrottai le sopracciglia. Un altro fulmine rischiarò la notte. E io ero là fuori, che mi guardavo.
Io.
Pensai a un riflesso, sul vetro della finestra. Misi insieme tre passi camminando all’indietro, cercai l’interruttore del faretto, battendo la mano sul muro. È un faretto potente, non lo accendo mai perché consuma parecchio. Sta di fatto che illumina tutto il cortile. Tac, la luce. E là, col naso attaccato al vetro, c’era un altro io. La pioggia gli passava attraverso.
Lui, cioè io, non si bagnava.
Lui, cioè io, era asciutto sotto il diluvio.
Mi venne normale toccarmi, perché io ero dentro casa, col dito bloccato sull’interruttore del faretto, con la bocca spalancata, e io ero anche là fuori, asciutto sotto il diluvio.
Io. Noi.
Non so se capisci. Se mi sono spiegato a dovere. Mossi l’indice quel tanto che bastava per spegnere il faretto e lui, cioè io, scomparve.
Non lo vedo da ieri. E non lo voglio vedere. Me ne sto rinchiuso in casa, non guardo fuori. Non sono neppure andato a lavoro, e questo è un problema.  
Non lo so. Ho paura, questo è un altro problema.
In più stamattina mi sono svegliato con quel segno sul collo. Sul collo. Dovrò usare la sciarpa. Ma io non sopporto la sciarpa, mi sembra di soffocare, mi pare che mi stiano impiccando. E questo è un altro problema, il più grosso.
Ma parlarne mi ha fatto bene. Non tremo più.

Dimenticavo: ha smesso di piovere.

lunedì 16 dicembre 2013

E' normale tutto questo?

Il nome che userò su questo Blog è Sibyl.

Ho 31 anni, sono una donna.
Non ho mai avuto un blog. La mia vita era normale, noiosa. E mi stava bene così. Non ho mai sentito il minimo bisogno di fare la cronaca delle mie giornate di lavoro o di rendere noto al mondo quante calorie c’erano nella mia cena. Oggi ho invece la necessità di mettere in rete quello che mi è successo sette giorni fa, nella speranza di farmi venire in mente una spiegazione sensata.
Se qualcun altro volesse scrivere su questo blog, per condividere esperienze simili ne sarei molto felice, anche se nutro in merito veramente poche speranze. Potrei farne un blog multiutente. Chissà.
Ad ogni modo, questo è quello che mi è successo.
La settimana passata un amico – un marcantonio di quasi due metri – mi ha spezzato un dito pestandomi un piede. Tra parecchie bestemmie fummo costretti ad andare al pronto soccorso, dove mi piantarono su una sedia a rotelle, mi fecero una radiografia e poi mi portarono in ambulatorio.
E’ stato lì che ho incontrato il tale da cui è scaturito il peggior incubo lucido che io abbia mai fatto in vita mia. Era un medico, non più alto di un metro e sessanta. Gli occhi neri, nascosti dagli occhiali, piccoli come quelli di un topo, capelli radi, nonostante il fatto che non arrivasse ai 35 anni. Mi fece stendere su un lettino, guardò la radiografia e mi disse, laconico: “Signorina, niente di grave. Dobbiamo steccare.”
Il mio amico, che era entrato con me nell’ambulatorio, chiese se gli era permesso rimanere. L’uomo gli rispose con una strana nota di ironia: “E’ solo una medicazione. Aspetti fuori, le rimanderò la signorina tra dieci minuti.” Gli avrei voluto tirare un pugno in faccia. Era solo una medicazione, non un’operazione a cuore aperto: per quale motivo non era permesso assistere?
Lo sguardo del mio amico fu rassicurante. Mi disse che avrebbe aspettato fuori e che, se avessi fatto la brava mi avrebbe portata a mangiare un cornetto di mezzanotte. Vidi le sue spalle voltarsi e sparire dietro alla porta. Immediatamente dopo entrò un’infermiera, che cominciò a preparare le bende e la stecca di acciaio mentre l’uomo mi distraeva con qualche domanda di poco conto. Mi chiese quanti anni avevo se ero della città. Io risposi di malavoglia, ma se fossi rimasta zitta avrei cominciato a piangere per la frustrazione. L’uomo fece uscire anche l’infermiera, e rimanemmo soli, io e lui.
Fuori aveva cominciato a piovere: ricordo distintamente il rumore sottile e fitto delle gocce di pioggia contro le finestre e un tuono profondo, che fece tremare l’aria. Si stava preparando un acquazzone e io, ovviamente, non avevo l’ombrello.
Mentre ero distratta dalla pioggia l’uomo aveva cominciato a tastare il piede, che pulsava maledettamente. Mi guardò negli occhi, per un istante, e sorrise. In quel momento percepii qualcosa, un’inquietudine che esplose come un lampo.

Mi agitai sul lettino al punto che l’uomo dovette tenermi ferma per un braccio. “Signorina, non faccia storie” disse. “Sta tremando per un temporale?”
Ricordo nettamente che la stanza in quel momento fu illuminata da un lampo. Poi venne il dolore. L’uomo aveva compiuto un movimento brusco, preciso, che aveva rimesso nel giusto assetto le ossa del piede: i miei nervi si ribellarono, increspandosi violentemente dalla gamba al cervello, che si spense.
Rimasi con gli occhi sbarrati, sentendomi improvvisamente fuori dal mio corpo: riuscivo a vedermi con lo sguardo di quell’uomo, sentivo le sue mani scivolare lungo le ossa del mio piede e della caviglia come se fossi io a muoverle. Tentai di respirare, non ci riuscii. Il mio cuore in apnea era un tamburo. Aspettai.
 Sentii il piacere nascere dal contatto della pelle contro la pelle, e la soddisfazione che ancora fluiva in quell’uomo dopo avermi vista contorcere e perdere i sensi.
 Immagini incalzanti di ricordi che riconobbi come recenti si sovrapposero nella mia mente ad un ritmo forsennato: una ragazza bionda, distesa sul tavolo di una cucina lercia, veniva colpita da una cinghia mentre piangeva lacrime scure di mascara, implorando di essere colpita ancora; una camera da letto in penombra: una ragazza bruna tremante di paura, rannicchiata in un angolo, aveva uno zigomo gonfio.
La lussuria e un senso di onnipotenza si agitavano come serpenti nella mente di quell’uomo e per quanto tentassi in tutti i modi di tornare padrona di me, sentivo che anch’io ne stavo godendo, abbandonando ogni decenza.

Mi risvegliò, vivido, il dolore di uno schiaffo. Quello che vidi riacquisendo l’uso degli occhi fu la luce abbacinante del neon e la faccia di quell’uomo che mi guardava compiaciuto. “Non c’è motivo di fare tutte queste storie. Il piede è a posto adesso. Dovrà tenerlo così per 20 giorni. Da quanto ha quella ferita sul collo del piede? Sembra fresca ma non credo sia stata provocata dalla scarpa del suo amico."
Ferita? Quale ferita? Lo shiaffo ancora riecheggiava nelle orecchie, focalizzai dopo qualche istante quello che mi stava chiedendo il dottore e quando risposi ero furente: "Non ho niente sul piede! Di che parla?"
Alzai stupidamente la testa, per guardare. Dopo la fasciatura qualsiasi cosa ci fosse era ormai impossibile vederla.

"Ha una strana ferita superficiale, sembra il simbolo delle SS. L'ho disinfettata, guarirà insieme alla frattura, vedrà che quando toglierà la stecca sarà già sparita. Vuole che l’accompagni fuori?” Sorrise: la sua faccia si sovrappose nel mio cervello al nome di Himmler. La mia agitazione cominciò a superare gil argini della gestibilità.

Il mio amico venne a prendermi. Gli impedii di rimettermi sulla sedia a rotelle, mi feci portare in braccio fino alla macchina e nascosi la faccia tra il suo collo e la sua spalla. La pioggia si era trasformata in un temporale a tutti gli effetti: l’acqua scrosciava giù dal cielo con rabbia.
“Che hai? È solo una fasciatura!” mi disse il mio amico, non potendo capire. Il mio cuore batteva tanto violentemente che lo sentiva anche lui.
“Niente" risposi. "Portami a casa.”