venerdì 28 febbraio 2014

La preda e il Cacciatore

Ho passato le ultime settimane a familiarizzare con l’idea di una me stessa pericolosa. Contrariamente a quanto Cinica dice di sé io mi sono sempre considerata una persona buona, sicuramente umile e che non ha mai avuto volontà di far del male a qualcuno,  ma mi sono ritrovata a coltivare il rancore come una potenzialità. Nelle mie fantasie più sfrenate ho accarezzato l’idea di scaricare la mia rabbia verso qualcuno che lo meriti. Si pone a questo punto il problema di chi meriti una punizione e soprattutto di chi mi darebbe il diritto di farlo.
Assillata da queste considerazioni questo pomeriggio, desideravo rimestare i miei pensieri con la stessa facilità con cui il mio cucchiaino mescolava lo zucchero al tè.

“Hai deciso di non uscire mai più?” mi ha chiesto il coinquilino  entrando in cucina. In effetti da quando ho recuperato l’uso del piede non ho mai passato un’intera serata fuori, per la paura irrazionale di farmi male di nuovo.
Gli ho dato ragione e ho cominciato  a scorrere la rete alla ricerca di qualcosa che valesse la pena fare per interrompere la mia clausura volontaria.
Stavo soccombendo alla frustrazione quando sono incappata nella pagina di un locale che frequentavo in gioventù. L’idea di tornarci per lasciare che il mio potere trovasse libero sfogo su persone dalla dubbia moralità mi ha divertita non poco: ho visto il mio riflesso sorridere malignamente mentre  indossava di nuovo, dopo anni, un bustino goth.

Alcune ore dopo ero davanti all’ingresso del locale, che è ancora come lo ricordavo: decorato in rosso e nero dalla tappezzeria alle pompose sedie barocche sui cui già erano seduti alle dieci della sera i primi predatori. Sono quelli che si siedono da soli con un bicchiere più pieno di ghiaccio che di alcool e che guardano incessantemente verso la porta in attesa che entri una preda interessante.
Mi sono seduta anch’io ad un tavolo, da sola, perché si chiedessero se ero lì per cacciare o per essere predata. Ho chiesto un Long Island con poco ghiaccio e mi sono messa ad aspettare.

In breve uno dei cacciatori ha deciso di fare la mossa di apertura. E’ una partita a scacchi a cui ho assistito spesso in passato, ma non avevo mai sentito l’ago dell’adrenalina pungermi la nuca.
Il cacciatore era un uomo di mezz’età, un mezzo borghese, un mezzo scrittore. Ha snocciolato la presentazione di sé con la sicurezza di un attore da due soldi nell’unico ruolo che conosce. Ho ascoltato, annuito, sorriso. Ho bevuto il mio Long Island con misura e ho dato risposte appuntite che stuzzicano la curiosità.

In breve eravamo già alla parte in cui lui mi chiede quanti anni ho e se mi piace, in un letto, legare o essere legata. < Legata> gli ho risposto. < Se trovo qualcuno all’altezza.>
L’orgoglio in riscossa aveva un odore di dopobarba economico quando il cacciatore, convinto di aver trovato la sua preda,  mi ha sussurrato all’orecchio che sarebbe stata necessaria una corda per dimostrare la sua abilità e che, guarda caso, ne aveva una proprio nel suo privè.
Mi sono alzata con il mio bicchiere in mano e non ho fatto che sorridere. Si è alzato anche lui e mi ha guidata in uno dei salottini in cui i clienti si appartano e, spesso, si accoppiano.

Aveva davvero una corda cerata. Mi ha messo una mano tra il collo e la spalla e mi ha attirata a sé. Non mi avrebbe baciata, è la regola, ma il contatto della sua pelle e i suoi occhi troppo vicini ai miei hanno generato in me un tale senso di repulsione che solo a stento sono riuscita a controllarlo.

Il sangue sembrava scorrere più leggero a causa dell’alcool. L’ho ascoltato montare dal cuore al cervello con il suo carico di rabbia che ho sentito esplodere quando l’uomo mi ha messo una mano tra le gambe, stringendo i miei jeans.
Un istante dopo si accartocciava sul pavimento, spezzato da quel dolore improvviso che gli avevo serrato intorno alla testa. Si premeva le tempie, le dita tra i capelli, gli occhi sgranati per la paura e lo smarrimento. Non capiva, non poteva capire quello che era successo. Cosa gli avevo fatto. Sono uscita dal privè e ho attraversato il locale con il passo deciso di chi non ha più un motivo per restare.

giovedì 27 febbraio 2014

AMICO FEDELE


Mi piace scrivere…

Si chiama Zippiri ed è una palla di pelo scuro di neanche quattro anni. Zippiri, nel mio dialetto, significa rosmarino, ma a saperlo prima l’avremmo chiamato prezzemolo: deve essere un segnato pure lui e avere il dono di replicare se stesso, ovunque tu vai in casa te lo trovi sempre davanti. In lui convivono l’animo dolce e guerriero del beagle suo padre e quello curioso e molesto del yorkshire sua madre.
Quando sono rientrato mi ha accolto facendo le feste; porta con sé un turbinio d’aria fresca quando muove la coda e salta disordinatamente in tutte le direzioni. Tu lo chiami e lui si agita ancora di più; alle volte scappa a correre avanti e indietro per il cortile con le unghie che sfregano sul battuto di cemento, altre volte si siede sulle zampe posteriori e si rialza con un guaito come se qualcosa d’invisibile gli avesse rifilato un calcio. Stranezze da cani mi dico.
Gli ho riempito la ciottola. Non mangia mai la mattina, ma quello… si fa così con i condannati giusto? E poi dovevo distrarlo in qualche modo: riso soffiato e scatoletta di carne, crocchette e pure un bel pezzo di fettina avanzato dal giorno prima.
Mi sono seduto, l’ho guardato mangiare: divarica bene le zampe assumendo una posizione solida, ogni tanto solleva gli occhi e mi osserva senza smettere di masticare, scuote appena la coda per ringraziare. Io gli accarezzo la schiena e con un piede accosto la ciottola che altrimenti porterebbe in giro per tutto il cortile con le sue lappate.
In quel momento squilla il telefono (sì, quello nuovo regalo di compleanno).
«Pronto?»
«Sì, pronto, ti disturbo?»
«No ingegnere, prego!»
Mi alzo. Il cane mangia ancora.
«Ma come mai non sei venuto oggi?»
«Sono ancora a casa della mia fidanzata: sono a letto! Mi sono fatto male alla schiena.»
«Ti è successo di nuovo?»
«E già, stessa cosa dell’altra volta.»
«A questo punto ci vediamo… tra quanto?»
La mano si chiude su un pezzo di legno. È delle dimensioni giuste: non troppo lungo, sufficientemente pesante per un colpo solo… non sopporterei di doverlo usare due volte.
«L’ultima volta c’è voluto una settimana per alzarmi dal letto. Facciamo tra due?»
«Così tanto? Ma dove ti sei fatto male di preciso?»
«Esattamente dove l’altra volta.»
“Chiaro no?” Penso.
«Beh allora ci vediamo quando guarisci… è che bisognava portare a termine quel progetto… va beh dai… arrivederci, arrivederci.»
«Arrivederci.»
Chiudo la chiamata e cancello il numero, non lo sentirò più e mi sorprendo di quanto è stato facile. Per un attimo ripenso alle tante discussioni con la mia fidanzata, lei che mi esorta a non andare più in quello studio perché tanto a stare lì per tutto il giorno mi fa solo incazzare. «E poi ti paga solo quando si ricorda! Resta a casa, mettiti a scrivere. Ti piace scrivere, mettiti a farlo così ti vedo felice.»
Sì, mi piace scrivere, ma so che i sogni hanno ali troppo fragili per volare con il vento che tira.
Calo il bastone con tutte le forze: nemmeno un guaito, solo il rumore della ciottola che si spacca e si rovescia spargendo riso soffiato e crocchette dappertutto. Cade su un fianco, un sussulto e niente più. Il colpo gli ha fatto sputare fuori un pezzo di fettina e un fiotto di sangue e bava. Gli occhi sono rovesciati, credo che siano gli occhi che maggiormente impressionano nella morte: ora capisco appieno il senso di chiuderli.
Getto via il bastone, m’inginocchio al suo fianco, lo accarezzo sulla schiena e sulla pancia grossa che si è fatto. Lo chiamo, ma non succede nulla. Il cuore inizia ad accelerare e sento la nausea riempirmi le narici. “Non passa nulla” penso e intanto chiudo le mani sul pelo morbido. Lo scuoto, impreco: “non passa nulla”, allontano la ciottola e mi siedo, mi tolgo il maglione e rimango a petto nudo abbracciandolo: “non passa nulla”. Resta inerme, quasi un peluche se non fosse per il sangue rosso scuro che gli imbratta il muso.

Mi piace scrivere e ora mi ritrovo a scrivere questa specie di diario che, visto il mio potere, assomiglia tremendamente a un necrologio.

martedì 25 febbraio 2014

Uno scopo

Vi è mai venuto in mente che dietro ai nostri poteri ci sia un motivo? Un volere più grande o qualcosa di simile?
Personalmente credo si tratti di evoluzione e forse il mio dono esiste per garantire l'equilibrio nel nostro ecosistema, certo ognuno fa ciò che desidera coi propri poteri, non c'è neanche niente di male nello sfruttare essi per ottenere qualche piccola rivalsa, ma il discorso cambia se a causa di un idiota qualsiasi ci troviamo in pericolo tutti.
Finora ciascuno di noi è stato discreto, almeno da quanto leggo, mi piacerebbe si continuasse con questo andazzo; dico tutto ciò solo perché mi sono trovato ultimamente a dover gestire una situazione piuttosto spinosa.
Sono andato a trovare Max qualche giorno fa e lui è svenuto sputando sangue, non avrei voluto chiamare un'ambulanza se ci fosse stata un'alternativa, ma indovinate un po'? Non c'era!
L'ho seguita con la mia auto standole attaccato come una gomma da masticare su una scarpa per paura che Steel si rimpicciolisse davanti agli occhi degli operatori.
Una volta giunti all'ospedale mi hanno prelevato del sangue per fargli una trasfusione in quanto condividiamo lo stesso gruppo sanguigno, ma venni separato da lui perché doveva entrare in sala operatoria.
Sarebbe stato complicato effettuare un'operazione simile su un tizio alto 20 centimetri, così, per non farlo morire, mi sono dovuto nascondere dentro uno sgabuzzino con delle scope.
La puzza di candeggina mi nauseava, non sapevo quando il mio amico sarebbe uscito da sotto i ferri e così, per non fargli correre rischi, sono rimasto in quell'antro per circa 5 ore senza minimamente sapere quali fossero le sue condizioni e se l'operazione avesse avuto successo.
A sangue freddo mi rendo conto che sarei potuto rimanere nelle vicinanze senza dovermi infilare in quel cavolo di posto, ma in quel momento ero nel panico più totale e temevo che qualcuno scoprisse le nostre doti speciali.
Sì ragazzi, noi siamo speciali, ma non superiori, ricordatevi sempre che siamo umani e anche noi erriamo, a volte leggo di come qualcuno approfitti arbitrariamente del proprio segno e la cosa mi infastidisce, ma non sono certo un giudice e mi guardo bene dal provocarvi, vi invito però a mantenere un basso profilo per non incappare in errori grossolani, ma significativi, come farvi scoprire.
Quando Max si è ripreso è come se avessi iniziato di nuovo a respirare, il sospiro di sollievo fu anche egoisticamente per me.
Per quanto tutti noi siamo vissuti per anni senza particolari abilità immagino che ora ci sarebbe impossibile farne a meno; credo che l'esserne privati ci farebbe diventare un'ombra di noi stessi.
Negli ultimi tempi si verificano eventi sempre più strani, adesso abbiamo pure un nuovo capo di governo senza aver avuto le elezioni, se non è paranormale questo!
Ma non mi va di parlare di politica, scrivo qui perché mi piace condividere i miei pensieri e le mie "avventure" con coloro che appartengono alla mia stessa categoria.
Noto con piacere che alcuni membri della nostra comunità hanno imparato a padroneggiare i propri segni con molta più facilità di quanta ne abbia mai avuta io.
Mi preoccupa non poco il potere di Lazzaro, non sono ancora preparato ad una prospettiva da apocalisse zombie.
Ragazzo, mi dispiace che tu abbia un capo così bastardo e sinceramente credo tu sia una gran brava persona poiché hai voluto ardentemente che vivesse fino a quando il tuo desiderio non è diventato realtà, ma se posso consigliarti... la prossima volta che un individuo tanto subdolo muore... lascialo nello status in cui è, gli si addice di più.
Per chi si teletrasporta tra gli specchi: prova a focalizzare uno specchio che hai già visto o toccato o un vetro di una casa in cui sei stata.
Vi starete chiedendo "come si permette questo di darci consigli su come usare i nostri poteri?".
Credo che risieda in questo il mio ruolo: fare da bilancia nell'ecosistema, poiché sono l'unico col quale venendo in contatto si ritorna del tutto umani.

INNOCENTI SODDISFAZIONI

Adesso non posso più far finta di niente. Che se solo ci ripenso, mi sale l’ansia, il Segno ricomincia pulsare, torna la luce verde e poi diosolo sa quello che succede. Altro che pomatina e passa tutto! Calma. Resterò calma, racconterò con ordine e spero solo di restarne fuori… da cosa, spero di riuscire a spiegarlo, altrimenti ve ne accorgerete da soli.

È ricominciato l’altra mattina, quando mi sono alzata. Devo vestirmi, andare in farmacia. Quel segno sulla gamba va curato, haivistomai fosse la circolazione, non c’è da scherzarci. Sulla poltroncina il solito vestito grigio, ch’è il colore giusto per la mia età. Non nero, che fa bara, ma nemmeno sgargiante. Niente di peggio di quelle che non si arrendono, capelli rosso melanzana e unghie finte, che scuotono il sedere al Centro Anziani coi lumaconi prostatici. Patetiche!… Eppure anch’io ballavo, ma da giovane, e mica male, ci andassi ora gli farei vedere, non fosse che ho il senso della misura, io -Ecco, lo sento, il Segno sta pulsando. Spero solo di riuscire a continuare, perché mi sento la testa strana- dicevo, non come Rosetta, donnetta acida e volgare, perfetta come portiera. E del resto, come dimenticarlo? Con quali meschini inganni si accaparrò il posto che solo a me spettava. Ma d’altra parte perché crucciarsi? Non sono donna da portierato io, no di certo, non mi s’attaglia proprio. Ebbene, mi gingillavo con questi pensieri, quando avvertii quella prurigine proprio lì, dove c’è il Segno. Non volli darle retta. Uno strano benessere mi pervadeva. E pensare a Rosetta e ai suoi intrighi da sottoscala, saperla ad attendermi solo per dardeggiarmi con il suo sguardo insolente, mi divertiva e solleticava l’idea di una piccola, innocente… vendetta! Il Segno pulsava vieppiù e intanto nella testa danzavano pensieri e inaspettate frasi, sempre più complesse, ma chiare come un ruscello cristallino. Continuai a far toletta. Poi scesi in cortile e la vidi. Estirpava erbacce dall’aiuola di ortensie. Rosetta e i fiori. Mai contrasto fu più ridicolo. Aggrappata alla scopa, china tra le foglie, con le dita adunche a scavare nel terriccio, a scrutare pidocchi tra i rami, chiocciolava come un… animale da cortile!
Fu allora che accadde. Il Segno pulsava quasi volesse scoppiare -Mioddio anche adesso!- L’aria si tinse di verde e vidi. Vidi le gambe di Rosetta accorciarsi, diventare gialle e rugose, mentre il corpo rimpiccioliva fino a sgusciare fuori dagli abiti, coperto di piume biancastre. Moveva la testa avanti e indietro con gli occhi stralunati. La bocca si rattrappiva, inghiottita dal naso, adunco e lucente, su un volto ormai di gallina starnazzante e isterica.

Non so dire quanto durò. Minuti. Secondi forse. Il Segno a poco a poco smise di pulsare -Come adesso... Sì, sta passando, menomale sta passando- e pure l’aria tornò normale, che lo spavento non so dire se fu più allora o adesso, che a ripensarci, è strano, ma è come l’avessi rivissuto identico preciso. La gallina era ridiventata Rosetta, tutta nuda dall’altra parte del cortile, che se ne scappava in casa urlando come inseguita dal demonio. Ed io lì, stordita, anche se, lo devo dire, con la soddisfazione di aver visto quella là avere quello che si meritava.

Nella testa m’erano tornati pensieri semplici, come andare in farmacia. Ma strada facendo mi accorsi di averla superata da un pezzo, la farmacia intendo, e che invece ero proprio davanti a un posto dove non avevo mai messo piede: la Biblioteca Comunale. Non so perché, ma dovevo entrarci. Eppure mi vergognavo, perché di sicuro là dentro c’era gente istruita e io il massimo che leggevo erano storie d’amore sulle riviste e certo avrei fatto meglio a tornarmene indietro. Mi voltai, ma subito sentii il segno pizzicare forte.Voleva che io entrassi! E non mi sentivo certo di andargli contro dopo tutto quello che era successo. Anzi, in un certo modo ero pure d’accordo.
Così, per la prima volta nella mia vita, mi avvicinai al bancone e, come da lontano, sentii la mia voce che chiedeva: “Potrebbe suggerirmi qualcosa sul comportamento molecolare?”

lunedì 24 febbraio 2014

Peeping Tom

Viaggiare da uno specchio all'altro non è istantaneo. C'è sempre una pausa tra partenza e arrivo, un momento di vuoto, una scelta. A volte dura solo un battito di ciglia: salto e sono già lì. Ma altre volte…
Immaginate di vagare in un grigiore uniforme, tra lunghe schiere di specchi sospesi. È un po' come sbirciare attraverso una moltitudine di finestre opache. Fare zapping tra milioni di canali. Cosa scegliereste?
È difficile spiegare cosa si prova a mezzo del salto, quando ogni decisione è ancora da prendere. Ad accoglierti oltre il vetro c'è soltanto la quiete dell'attraverso: un nulla incolore in cui sprofondare, i lontani lampi dei primi riflessi a farti da guida. È come galleggiare nello spazio, sapendo che ogni stella è una meta possibile.
Senza una destinazione precisa il viaggio nell'attraverso potrebbe durare all'infinito, ma è difficile fermarsi con l'intero universo davanti. Nessuno sa cosa si nasconde al di là del prossimo specchio o di quello dopo ancora, però forse è qualcosa di buono: meglio andare a vedere.
La regola più importante l'ho scoperta una volta tornata indietro: mai attardarsi troppo.
Avrete già capito che mi piace fare acquisti su internet. La mia usuale prassi nell'accogliere i conseguenti fattorini è borbottare un saluto appropriato all'ora, fare uno scarabocchio e poi correre a spacchettare tra gridolini di giubilio. Se amo i corrieri è solo perché mi portano quello che voglio e poi si levano dai piedi.
Ma l'altra mattina, dopo un'ora passata nell'attraverso alla vana ricerca della Hawaii (l'inverno mi sta mettendo a dura prova), sono riapparsa a casa proprio durante il buzz-buzz del citofono. il mio cuore ha mancato un battito. È il fattorino, mi sono detta. Quello carino con il tatuaggio, ragni sul polso, di sicuro ci deve essere una storia dietro, non so perché non gliel'ho mai chiesto, lo farò subito.
A pensiero segue reazione, nessun ripensamento: una donna corre giù per le scale in preda all'improvvisa voglia di chiacchierare con il fattorino. Prima di arrivare al portone mi sono sistemata i capelli, poi ho fatto gli ultimi quattro scalini a passo posato, perché non volevo mi scappassero le ciabatte dai piedi proprio dove lui poteva vedermi (è già successo: mi piacciono grandi).
La faccia mi si è allargata in un sorriso tutto denti. In altre circostanze mi sarei ricordata di quanto mi fa assomigliare al gatto del Chesire.
“Ciao! Grazie! È per me vero? Beh, certo, hai suonato da me.”
Non c'è onomatopea al mondo per rendere la risata in cui mi sono prodotta.
“Ho sempre voluto chiederti, no, ma quel tatuaggio, perché ce l'hai? Anche a me piacciono i ragni, sempre piaciuti, fin da bambina. Credo sia a causa di Shelob. Il Signore degli Anelli. Hai presente? Adorabile bestiola.”
Ha provato a rispondere, o forse solo a chiedermi di “apporre una firma qui”, ma ormai ero lanciata.
“È stata mamma a farmi scoprire Tolkien. Mi ha letto tutta la triologia, povera donna, che voglia. Comunque, amo i ragni. L'ho già detto? In casa conviviamo pacifici. Un po' meno i gatti.”
L'ho guardato fissa negli occhi, che erano azzurri e a loro modo ragguardevoli.
“Quindi? Il tatuaggio?”
Lui ha fatto una smorfia, un lieve cedimento della facciata professionale mantenuta durante il mio sproloquio. Spallucce.
“Boh. Così.”
“Ho sempre pensato di farmene uno ma alla fine non ci sono mai arrivata dietro. Mi manca l'idea giusta. Invece non potrei tingermi bionda, a te sta bene, bel colore, ma su di me sarebbe agghiacciaaaaante.”
Proprio in questo modo, enfatizzando le A.
Mi ha porto lettore e penna, probabilmente per la quarta volta. Ho ceduto solo a causa del lontano, fievole richiamo della mia dignità. Ma nel guardarlo girarsi per andarsene, qualcosa dentro di me è ripiombato ai primi anni duemila, quando consideravo la pacca sul didietro un accettabile lubrificante sociale.
Sciaff: palmo aperto, chiappa piena.
Ha avuto la cortesia di non insultarmi. Nemmeno quando ho alzato il pollice in segno di approvazione. Nemmeno quando gli ho gridato dietro “Alla prossima, culo sodo”.
Per come la vedo io, un salto istantaneo mi affatica, ergo lo svenimento. Ma il troppo tempo nell'attraverso mi trasforma in una rana dalla bocca larga.

Questioni di sangue

Questa volta vi scrivo dall'ospedale. Con il telefonino non è proprio comodo, ma ho tempo e tanta noia. Il che potrebbe essere considerato un miglioramento visto come stavo poche settimane fa.
Avrei dovuto presagire quello che è accaduto l’atro giorno, quando portatore di luce è passato da me: ogni volta che annullava i miei poteri o che questi tornavano sentivo delle fitte dolorosissime che mi attanagliavano tutta la pancia e l’intestino. A volte mi pareva che scorresse acido nei miei polmoni. Non gli ho mai detto niente perché… in realtà non lo so bene. Forse non volevo farlo preoccupare, o forse pensavo che non ci saremmo visti più. Magari si sarebbe sentito in dovere di stare sempre con me. Insomma, non lo so.
Come sempre, tornai normale prima che lui suonasse il campanello. Socchiusi la porta per farlo entrare mentre io mi vestivo, ma subito ho iniziato a tossire e non riuscivo a smettere.
Ogni colpo di tosse era una fitta lancinante. Cercavo di tranquillizzarlo, ma non riuscivo a parlare. Lo vidi sbiancarsi e poi mi accorsi del sangue sulla mano. "Sto bene." Dissi, ma col sangue che mi colava copioso dalla bocca non dovevo essere stato molto convincente. L’ultima cosa che ricordo è che chiamava il 118. Non volevo: temevo che il mio potere del piffero tornasse mentre mi visitavano.
Poi mi sono trovato nella corsia dell'ospedale, con una sacca di sangue attaccata al braccio. Emorragia interna.
Mi riempirono di domande, a me e a Portatore di luce, ma non avevamo risposte da dargli. A parte l’ovvio: ogni volta il mio corpo doveva subire in pochi secondi un aumento o una diminuzione di 50 chili. Non è come quando contraggo gli addominali: il peso non cambia e, quando torno minuscolo le ferite scompaiono. Tutto questo non doveva far bene al mio corpo. Era solo questione di tempo.

A proposito: che gruppo sanguigno avete voi? A quanto pare io e portatore di luce condividiamo lo zero positivo. Una strana coincidenza. E fortunata, dato che se sono vivo è perché mi ha donato un paio di litri del suo. Devo sempre più al portatore di luce.
E ora mi chiedo: se una boccetta della sua saliva blocca il mio potere per quasi un giorno, per quanto avrà effetto il suo sangue dentro di me?

Un Max senza strano potere, per il momento.

giovedì 20 febbraio 2014

Tecniche per scomparire

Non ho mai avuto la pretesa di essere buona.
Né buona, né giusta.
Anzi, se penso al mio passato, credo di essere stata una stronzetta in parecchie occasioni. Quindi probabilmente è per questo motivo che non riesco a capire perché continuiate tutti (o quasi) a cercare di contenere quello che vi sta accadendo.
All'inizio ok, anch'io ero spaventata a morte.
Ma poi, grazie al blog, è venuto fuori che siamo in tanti alle prese con qualche abilità in più rispetto al resto della popolazione. E quindi perché non spassarsela?
Mentre voi vi impegnate a tenere a bada la situazione, io sto lavorando per capire come funziona il giochino. Appena ho un attimo chiudo gli occhi e provo a sparire. Lo faccio soltanto quando sono a casa, da sola, dopo essermi assicurata di aver chiuso bene le finestre.
Non voglio che si sparga la voce nel vicinato.
La città in cui sono piovuta è piccola, le notizie passano di bocca in bocca alla velocità della luce. A volte mi chiedo cosa lo producano a fare, un telegiornale, quando basterebbe gridare le notizie alla finestra. Tornando al nostro potere, mi sembra che non sia particolarmente facile evocarlo a piacimento, anzi, non mi riesce quasi mai al primo tentativo.
Però so per certo che la molla che fa scattare il meccanismo, almeno per me, è lo stress. Quindi ho elaborato una strategia solo apparentemente incongruente. Prima mi rilasso, e solo dopo mi concentro su un qualcosa che mi manda su di giri.
Mi siedo comoda, chiudo gli occhi, faccio qualche respiro profondo e penso al mio lavoro; lascio che la mia mente vaghi libera tra i pensieri più tristi, le situazioni più angoscianti, poi riapro gli occhi. Al primo tentativo scorgo nello specchio i contorni del mio corpo che si affievoliscono, sembro una caricatura venuta male.
Allora riprovo.
Chiudo nuovamente gli occhi, cerco di liberare la mente da tutti i pensieri, e mi concentro sulle cose che temo di più. Se sono realmente rilassata, sento sulla pelle uno strano formicolio, concentrato sulle mani. All'inizio controllavo subito, per capire cosa mi stesse succedendo.
Ora invece cerco di tenere la mente libera per assaporare quel torpore che mi avvolge, fino a quando non sono pronta per tornare in me.
E' una gioia infinita vedere quel dannatissimo specchio vuoto, capire che posso farcela, e mantenere questa splendida illusione gridando mentalmente “vittoria”!
Altre volte sono soltanto leggermente sfuocata, ma non importa, non ho alcuna intenzione di mollare.
E vi assicuro che non me ne frega proprio nulla di cosa sia stato a “contagiarmi”, a farmi diventare un fantasma tra la gente.
Se ci arriveremo, se lo scopriremo, ben venga. Ma se rimarrà un mistero… pazienza, ce ne faremo una ragione. L'unica certezza che ho a questo punto è che qualunque cosa sia accaduta, ho intenzione di volgerla in mio favore, costi quel che costi.
In queste settimane ho letto tutti i libri che mi sono comprata sull'automotivazione & C. e una cosa l'ho imparata. Se accade un evento imprevisto, in qualche modo, ce lo siamo cercato. Quelli furbi lo capiscono subito e ne approfittano; tutti gli altri passano il resto della loro vita a farsi le pippe su cosa sia giusto o non fare. Beh, pensate di me cosa vi pare, ma farò parte del primo gruppo, potete giurarci.

mercoledì 19 febbraio 2014

Come i cani



È dietro al polpaccio sinistro, sembra un tatuaggio. Non lo è. L’ho trovato tre giorni fa mentre mi facevo la doccia. “Sembra il marchio di Berserk”, mi sono detto all’inizio. Poi mi sono preoccupato. Non mi prudeva, non mi dava fastidio. Però era lì, come una cicatrice apparsa dal nulla, senza che mi ferissi.
Non sono andato a lezione, quella mattina. Sono andato dalla dottoressa. Già prima sapevo che non era una cima, ma ci sono andato lo stesso. Secondo lei si trattava di un fungo.
«E come l’avrei preso?», ho chiesto.
Non ha saputo rispondermi, però mi ha prescritto una pomata. Secondo lei sarebbe diminuito già dopo un giorno.
L’ho detto che non è una cima, no?
Be’, dopo un giorno, cioè l’altro ieri, non era diminuito. Anzi, il colore si era fatto più scuro. Così ho fatto esattamente quello che dico alla mia ragazza di non fare mai: ho cercato informazioni su Internet.
E ho trovato questo blog.
Ho passato tutta la sera a leggere ciò che avevate postato. Non ci credevo. A me non era successo niente. Avevo solo quel simbolo che penetrava sempre di più sotto la pelle. Ma niente superpoteri.
Ieri mi sono svegliato e gli occhi mi prudevano. Sono tornato su questo blog, ma ho dovuto smettere di leggere: iniziavo a vedere tutto sfocato. Mi sono messo a letto, ho dormito un poco. Quando mi sono svegliato, due ore dopo, alle 11.00, gli occhi mi facevano proprio male. Era come quando ero piccolo, e per disinfettare le ferite si usava l’alcool. Erano fitte che duravano qualche secondo e poi passavano.
Ho visto abbastanza Heroes e Misfits per sapere che queste cose non finiscono bene. Mi sono sistemato una pezza bagnata sugli occhi e mi sono sdraiato di nuovo.
Mi sono svegliato alle 16.00. Il dolore era passato.
Ma non vedevo più i colori.
È strano, vedere tutto grigio, come i cani.
Ho cercato il numero di un oculista, ho chiamato dicendo che era un’emergenza. Cavolo, lo era. Mi sono precipitato da lui.
Acromatopsia. Ho dovuto provarci tre volte, prima di riuscire a pronunciare questa parola. Una malattia degenerativa, ha detto. Oppure cerebrale, un altro modo per dire che ho un tumore. Ha detto che difficilmente i miei coni torneranno a posto. È praticamente impossibile che veda di nuovo i colori, ha detto.
Non volevo crederci.
Mi ha prescritto una TAC. Se l’esito sarà negativo, dovrò ripassare da lui.
Poi ho capito che non sarebbe stato necessario.
È successo in Piazza Castello, nel centro di Torino, ieri sera, mentre stavo tornando a casa dopo la visita. Lì ho rivisto un colore. Rosso.
A Torino i pedoni non rispettano molto i semafori, non serve. Basta stare attenti e guardare che non stia per passare il tram.
Dall’altra parte della strada c’era un capannello di persone. Turisti, tutti bianchi e neri e grigi ad aspettare che si accendesse la luce in basso del semaforo. Scusate, la luce verde. Questa cosa non è più molto importante per me. Saranno state una ventina di persone e poi è sbucata lei: una ragazza che brillava di rosso.
E io sono rimasto bloccato a fissarla. Non avete idea di cosa significhi vedere un solo colore, concentrato in una donna, brillare come un’aura.
Forse l’oculista aveva sbagliato, magari si trattava solo di una forma di affaticamento.
Poi è passato il tram.
E la ragazza ha spinto uno degli uomini, un vecchio, sotto al vagone.
Ho sentito lo stridio delle ruote di metallo e le urla dei turisti. Una donna di fianco a me ha vomitato. Io ho attraversato la strada di corsa, ma la ragazza che brillava di rosso era scomparsa.

martedì 18 febbraio 2014

LA PAURA

«Sei stato tu, non è vero?»
Le parole di Puffo mi colpiscono come pugni in faccia.
Il Caffè tintinna di piattini su un sottofondo di ciarle sommesse: coppiette intrecciate a tavolini di legno assaggiano l'uno la brioche dell'altra; studenti radical chic fingono di studiare sui loro mac-book, sprofondati in grosse poltrone finto vintage; gruppi di ragazze in leggins e ballerine si raccontano dell'ultimo stage in Cappadocia, soffiando sul loro bollente caffè al ginseng. Vi chiederete cosa diavolo ci faccio qui; l'unica ragione è che questo è il locale più vicino a casa mia. E io avevo bisogno di parlare con qualcuno oggi. Ho anche aspettato troppo, tenermi tutto dentro mi sta uccidendo.
«Senti,» prosegue Puffo, «io c'ero la prima volta che è successo e qualcosa mi dice che in negozio è andata allo stesso modo.»
«Hai paura di me, vero?» mormoro.
Puffo non risponde subito; sorseggia il suo tè in silenzio. Ecco cos'è. Paura. Ha paura di me. Il mio migliore amico ha paura di me. Un nodo di lacrime mi risale la gola.
«Io ti conosco e per me non cambia nulla,» aggiunge poco dopo, «razionalmente parlando. Ma se me lo chiedi, beh, sì, ho paura. Perché hai questo potere …»
«Io non ho nessun potere!» ringhio a denti stretti.
«… e non riesci a controllarlo. È questo che mi fa paura, che potresti far del male a qualcuno; senza volerlo, santo Dio, senza volerlo: ma potrebbe accadere; ti si potrebbe persino ritorcere contro.»
«Io non voglio nessun cazzo di potere!»
«Ma ce l'hai.»
La verità mi arriva addosso con violenza inaudita. Posso continuare a partorire scuse, giustificazioni – ero ubriaco, non sono sicuro di aver davvero visto un leone, ci dev'essere una spiegazione – ma quello che so, sin da quel lontano 21 dicembre – è che io ho invocato quelle creature e non c'è niente da fare, è così, che io lo voglia o no.
Il nodo di lacrime esplode e io scoppio in un pianto dirotto, con quell'inutile caffè ancora stretto in mano. Un paio di ragazze al tavolo di fianco si gira; poi tornano a raccontare di quando hanno fatto l'autostop a Istanbul.
«Scusa, io … hai ragione … ho una paura fottuta di fare del male agli altri … a te, ad A., che succede che litighiamo e appare il leone? Do fuoco alla casa?»
«Su, su,» si avvicina Puffo, poggiandomi una mano sulla spalla, «sfogati, ti fa bene.»
«E poi? Cosa cambierebbe? Sono una cazzo di bomba a orologeria! Potevo …» abbasso la voce «potevo uccidere qualcuno l'altro giorno in negozio!»
«Ma non l'hai fatto di proposito, giusto?»
«Certo che no! Ero incazzato nero, questo sì, ma non avrei mai …!»
«Appunto, è come ti dico io! Devi dominare il tuo potere!» Puffo termina il suo tè ed espone la sua tesi: «È come quando a sedici anni sei in piena tempesta ormonale: hai gli sbalzi d'umore e un'incontenibile voglia di scopare, così ti si spegne il cervello e ti ritrovi in macchina con dei cessi cosmici.»
«Una bella allegoria,» commento in tono scettico, «e il collegamento coi miei cuccioli che incendiano i negozi quale sarebbe?»
«Beh,» prosegue Puffo, meglio di un ricercatore che espone la sua teoria antropologica a un convegno internazionale, «ora sei come un sedicenne in balia degli ormoni: non sei tu a comandare, bensì il tuo potere. Devi capire come funziona e imparare a controllarlo. Devi fare delle prove, insomma!»
«Prove?»
«Sì, evocare a comando quei mostri e poi dominarli.»
«E se non ci riesco?»
«Incendierai qualcos'altro. Prova con Zara Home, nessuno ne sentirà la mancanza.»
«Ah. Ah. Bella battuta! Intanto per la storia dell'incendio rischio di essere licenziato!»
«Cosa?» esclama Puffo. «Ma non hanno prove che sia stato tu! Anche i pompieri hanno detto che non è stato doloso!»
Inarco un sopracciglio e con tono da martire rispondo: «Katia.»
Puffo mi fissa esterrefatto. «Non dirmi che …»
«Ha messo la pulce nell'orecchio della store-manager e mi hanno fatto capire che mi terranno d'occhio.»
«Che troia! Meriterebbe una bella lezione!»

 Ci scambiamo uno sguardo malefico. «Dicevi di fare delle prove?» esclamo con un sorriso. «Sai, mi è appena venuta un'idea.»

JEJE


A scavare fosse si perde tempo…

Era stordito certo e perdeva pure sangue da un taglio sulla testa, ma che altro? Niente: niente di niente.
«Cos’è successo?»
«È scivolato e ha battuto la testa.»
«Ma che coglione che sono!»
“Già!” Pensai, «forza! L’accompagno al pronto soccorso.»
Prima sono corso in bagno a sciacquarmi la faccia; ero terreo in volto come certe ragazzine che si spalmano tonnellate di fondotinta per seppellire i brufoli. Mi sentivo spossato, le mattonelle alle pareti sembravano liquefarsi, la maglietta era attaccata alla schiena da secchiate di sudore. È lì che ho scoperto il segno sul bicipite, era quasi evanescente come una vecchia smagliatura sulla pelle. In quel momento fui sicuro che per resuscitarlo una parte della mia vita, accorciandosi, si è trasferita in lui: “l’ennesimo sgarbo di quel pezzo di merda!” Pensai, ma ce di più, ero stremato, affannavo, se avessi dovuto ripetere il “miracolo” avrei fallito: ne ero sicuro… sicurissimo.
Ho passato un intero fine settimana con la stessa frase tra i denti: «… Non ho niente, sono solo un po’ stanco, tutto qua...» Sulle labbra un sorriso che pareva ottenuto con una pinzatrice. Io e la mia ragazza abitiamo a cento chilometri di distanza e ci vediamo solo il sabato e la domenica; sapete: mi ha regalato un telefono per il compleanno e io sono stato capace di ripetere solo quelle parole per tutto il tempo. Abbiamo litigato, ma non posso certo biasimarla, quando uno se ne sta zitto per tutto il tempo è normale no? Non abbiamo fatto l’amore, non stavolta, temevo che spogliandomi avrebbe notato il segno capendo in qualche modo ciò che avevo fatto: quante delle vostre donne (o uomini) capiscono il vostro stato d’animo con una semplice occhiata? E non parlo di essere bravi o cattivi attori.
Quando, lunedì all’alba, ci siamo salutati lei ha pianto e io avevo il volto livido. Ho pianto pure io quando il treno è partito, di nascosto, stando seduto sul cesso come fanno gli uomini patetici. La luce del bagno come un’accusa accecante puntata sulla testa, fuori dal finestrino solo sagome annerite stagliate contro lo sbiadito azzurro-verde dell’orizzonte; oltre la porta chiusa, nell’isoloto in mezzo al vagone, alcuni ragazzini ridevano e facevano casino. Uno diceva che sabato notte si era ridotto da buttare via, l’altro era riuscito a infilare la mano dentro le mutandine della sua amica; a detta sua a lei era piaciuto immensamente anche se era solo per qualche secondo: ma che volete, si fa quel che si può! In quel momento sentii il bisogno dell’uno e dell’altro, ma avevo solo acqua non potabile del lavabo incrostato e la mia fidanzata era già a dieci chilometri di distanza e per tutto il tempo che mi era stata vicina non l’avevo nemmeno sfiorata. A proposito: si chiama Jessica e una vita fa le ripetevo sempre che ha gli occhi tondi e gli zigomi sporgenti.
Quel lunedì sono tornato a lavoro; mi sono fermato davanti al palazzo dove c’è lo studio, ho esitato, le chiavi mi sono scivolate di mano e le ho lasciate lì in terra: non potevo tornare in quella stanza dopo quello che era successo, non potevo parlare a quell’uomo guardandolo in faccia e specchiandomi nei suoi occhi morti.
Ho preso a camminare e arrovellarmi il cervello, pensavo che in quello stesso istante qualcuno stava morendo (e chissà quante vite si sono spente nel momento in cui scrivo). Avere il dono di resuscitare la gente senza quello dell’ubiquità è una gran bella fregatura! E poi c’è il fatto che sembro aver bisogno di tempo per “ricaricarmi”: nel momento in cui vagavo senza meta il segno aveva ripreso le sue sfumature di fiamma sul bicipite. Alla fine sono tornato alla macchina, ho messo in moto e quando ho parcheggiato di nuovo erano le undici e l’alto muro del cimitero si spiegava come un’ala dissecata oltre il parabrezza.

C’è solo un modo per andare a fondo alle cose ed è quello di affrontarle. A scavare fosse si perde tempo… così quando sono rientrato a casa ho ucciso il mio cane.

lunedì 17 febbraio 2014

Autocontrollo

Avete presente quei tizi fuori dai centri commerciali che ogni tanto ti chiedono di donare "spontaneamente" qualcosa per i bambini/malati di cancro/sindrome da bicicletta senza sellino ecc. ? Ne ho incontrato uno, una ragazza per l'esattezza, dall'insistenza fastidiosa.
Continuava a chiedermi di dare quei "5 euro a piacere" per non so quale causa, ma dato che non sono solito dare soldi agli sconosciuti ho proseguito per la mia strada ... per 2 metri per poi ritrovarmela attaccata stile sanguisuga sul mio giubbetto, con quelle lacrime di coccodrillo in faccia mentre continuava a pregarmi di dare questi soldi.

Non potete capire quanto mi fa incazzare la gente che piange, ma soprattutto quelli che lo fanno a scopo di lucro, le ho tirato un urlaccio e me la sono scrollata di dosso e lì ho visto la sua espressione cambiare.
I suoi occhi erano piccole fessure malvagie che sprizzavano odio, lo sentivo arrivare verso di me, lei iniziò a parlare lentamente e a scandire le parole "tu ora donerai", ero inquietato e il mio segno vibrò come mai prima, vidi formarsi il nostro stigma sulla sua gola mentre parlava.
Le sue parole non avevano effetto su di me, ma forse il fatto che si fosse manifestato in quel momento il suo potere non mi permise di bloccarlo del tutto, lo capii quando tutte le persone nel parcheggio iniziarono a dirigersi verso di lei con 5 euro in mano.

L'occhio sinistro iniziò a lacrimarmi, poi feci qualcosa di cui forse mi pentirò a vita.
Aprii gli occhi e la guardai intensamente con l'intenzione di farla smettere di parlare, lo pensai con volontà ferrea, d'un tratto tutte le persone si guardarono addosso un po' scioccate e perplesse, dubbiose sul perché avessero 5 euro in mano.
La ragazza sembrava strozzarsi, non riusciva più a parlare, ma questo valeva per tutti coloro che erano nella zona, immaginatevi un centro commerciale nel più completo silenzio.
Nessuno riusciva più a utilizzare la lingua, con un'unica eccezione: me.

È confermato, il mio potere funziona ad area e può annullare letteralmente il funzionamento di qualcosa, non so per quanto tempo o a quanta distanza da me, non ho idea di come farà quella gente a ritrovare l'uso della parola e sono infinitamente dispiaciuto per l'accaduto, ma non sapevo che altro fare e poi non pensavo le conseguenze fossero così devastanti.
Abbandonai il centro commerciale il più in fretta possibile e andai a casa piuttosto preoccupato e scosso.

Il mio maestro di karate aveva ragione, la potenza è nulla senza il controllo, ma cosa si deve fare con abilità come le nostre? Nessuno conosce appieno quali sono le potenzialità dei segni e quanto possano essere dannosi per gli altri.
Mi sento utile solo quando vado a trovare Max Steel, ogni tanto torno a fargli visita per sapere come sta e come si è evoluta la sua condizione, lui è quello con più autocontrollo fra tutti noi.
Fino a poco fa si considerava uno sfigato, adesso ha molta più confidenza verso sé stesso, la cosa mi fa piacere senza dubbio.
Ho provato a lasciargli un mio capello per tenerlo a dimensioni normali ma non ha funzionato, evidentemente solo i miei liquidi fanno da placebo per i segni altrui.
Spero vivamente che la mia abilità non leda gli altri e che tutti coloro che si sono trovati in mezzo mentre la utilizzavo presto si riprendano e tornino ad avere un'esistenza normale.

Non ho ricevuto messaggi o risposte da nessuno di voi eccetto Max, ma il mio invito a conoscersi l'un l'altro è sempre valido.
Chiunque di voi abbia imparato a gestire al 100% la sua "peculiarità" me lo faccia sapere, avrei soltanto da imparare.

Mi sento osservato...

Mi sa che mi sono fatto scoprire. Non ho le prove certe, ma sono quasi sicuro che sia così. Da quando ho iniziato a lavorare in modo continuativo ho allentato la mia attività di giustiziere occulto, – motivo per cui non ho postato più niente - ma ho frequentato abbastanza i bassifondi da riconoscere dei brutti ceffi quando li vedo, e in questi giorni ne ho incrociati un po’ troppi per i miei gusti.
Non c’entra niente Lombroso, con le sue boiate sulle fronti alte e le labbra carnose. Si tratta più di atteggiamenti, di modi di porsi, del linguaggio del corpo insomma. E da un po’ di giorni, appunto, mi sono accorto che attorno a dove vivo e a dove lavoro c’è una concentrazione di persone dalla faccia assolutamente anonima ma dagli atteggiamenti difficilmente equivocabili.
Sto andando nel panico. Ora come ora mi piacerebbe avere dei poteri aggressivi, come quello che incenerisce le cose a comando o quello che aveva affinità con l’oscurità. Mi tornerebbero veramente comodo. Anche perché temo che possano prendersele con la mia famiglia.

Non so che fare. Aiutatemi!!!

giovedì 13 febbraio 2014

Dopotutto non è niente

Salve.

Non so da dove cominciare.

Vi ho trovato sul web mentre cercavo risposte a quello che mi è successo e non sono ancora sicura che questo sia il posto giusto.

Dopotutto non è niente. Niente di cui preoccuparsi intendo. Ho solo uno dei tanti segni che l’età mi ha scritto addosso. Saranno i soliti capillari dilatati. Sulle gambe ne ho di tanti tipi: a candelabro, a ragnatela, persino uno identico a una giarrettiera, di quelle per seratine hot che invece di preoccuparmi, magari potrei approfittarne.

O magari un’allergia, con tutte le schifezze che si mangiano, senza contare tutta la roba dei cinesi, che hai voglia a dire, ma costa poco e de sti tempi…

No. Di certo non è niente. Una scemenza che basta la pomatina giusta e passa tutto.

Ecco… magari preferirei che rimanesse com’è. Brutta sì, ma tanto con le calze pesanti ormai chi la vede? Solo Ugo, che però è un gatto beneducato e quando mi spoglio si raggomitola ai piedi del letto e fa finta di niente.

Ma qui leggo cose bruttissime, parole come ‘marchiati’ e allora mi rendo conto che… non so come dirlo… sì insomma, che dovrei parlarne e che l’altra sera quella luce verdastra che ha fatto scappare Ugo non veniva dalla radiosveglia. Eh no! perché c’era un blackout in tutto il quartiere, me ne sono accorta benissimo quando ho cercato di accendere la lampada del comodino e quando ho fatto tutto il corridoio fino in cucina, con quella povera bestia che per lo spavento s’è arrampicata sul pensile e mi fissava con le orecchie tutte all’indietro.

Quella luce veniva proprio da lì: dal segno che ho sulla gamba!

Mi sono appoggiata all’acquaio col cuore che potete immaginarlo e ho preso un bicchiere per un po’ d’acqua, che se mi capitava un mancamento e sbattevo la testa, io che vivo sola, se ne sarebbero accorti dopo tre giorni dall’odore, con rispetto parlando.

Un bicchiere. Lo so benissimo dove sono i bicchieri. Li tengo nello stesso posto da sempre. Ma quando ho aperto il rubinetto mi sono ritrovata in mano un cucchiaio, che io le posate le tengo tutte da un’altra parte e allora ho pensato che la vecchiaia è proprio una brutta bestia e che ti manda in pappa il cervello e ti fa vedere cose che non esistono come le varici fosforescenti e che a me serviva solo uno stramaledetto bicchiere per bere solo un fottutissimo sorso d’acqua!

Non so per quale motivo, ma sentivo salire la rabbia e più saliva, più la luce aumentava e il segno, gonfio, pulsava come… come fosse un cuore! Sì! Un cuore mostruoso in un posto mostruoso, come quei gemelli che vanno sui giornali e uno si porta dentro il fratello senza saperlo finché un giorno...

È stato allora che ho visto.

Nelle mie mani il cucchiaio è diventato un bicchiere. Giuro, un bicchiere! Ma diverso dai miei, di cristallo lucente, elegante, di quelli che con la pensione non mi sognerei mai di comprare e nemmeno coi punti del supermercato, che preferisco cento volte un asciugamano.

L’ho riempito d’acqua e ho bevuto. A poco a poco l’ira s’è placata. La luce s’è affievolita fino a scomparire del tutto. Ho guardato la gamba: il segno era tornato come prima.

In mano stringevo un cucchiaio.

Bagnato.

Non so cosa pensare.

Forse questo blog non è il posto giusto.

Forse sono solo una vecchia rincoglionita.

Ma vi ringrazio ugualmente perché anche se, come vi sarete accorti, non ho una gran cultura, scrivere mi ha fatto bene. Mi sento più tranquilla.

Penso che domani andrò in farmacia a chiedere una pomatina. Per la gamba.

Grazie ancora.

lunedì 10 febbraio 2014

LAZZARO

Qui va tutto male…

Seguo le vostre storie da tempo, ma solo ora ho deciso di scrivere; non so se qui troverò conforto o aiuto oppure una soluzione al mio problema: il mio segno è sul bicipite e assomiglia tanto a un marchio a fuoco che si distende quando allungo il braccio e si contrae come lo ripiego. Potrei dire che è una fenice ma credo che sia come quella macchia d’inchiostro nel test di Rorschach.

Ho atteso… ho atteso perché avevo bisogno di conferme, di sperimentare, essere certo di quali fossero le mie possibilità e quali i miei limiti.

Ho letto di chi si è rinchiuso in casa. L’ho fatto pure io all’inizio, per due giorni, con le persiane chiuse e la carta di giornale sotto la porta per non vedere la luce, ma seppellirmi al buio non serve, non riesco nemmeno a seppellire il mio potere dentro le pieghe di me stesso: Come posso far finta che non ci sia?

Ciò che scrivo lo faccio d’impulso, cercando di mantenere un filo logico e uno cronologico degli avvenimenti che mi hanno segnato, proprio come il brutto marchio che mi deturpa il braccio; lo faccio per lasciare una traccia che resti a galleggiare nella rete, parole che servano da testimonianza prima di affondare.


È iniziato a fine gennaio, nello studio del mio principale. Siamo… eravamo io e lui in quel buco e non invidio certo chi siede al mio posto in questo momento. Erano le otto di sera di venerdì 31: il giorno del mio trentesimo compleanno. Stavo per chiudere tutto e tornarmene a casa quando lui è rientrato dopo che era mancato per tutto il giorno. Si è seduto affianco, chiedendomi di aprire un progetto seppellito in una delle tante cartelle del pc, aveva un’aria trafelata, scocciata. Era tardi cazzo e io volevo solo tornarmene a casa! Ci sono voluti altri tre quarti d’ora prima di alzarmi da quella sedia su cui poggio… poggiavo il culo per otto ore al giorno e a un certo punto, mentre mi infilavo il giubbotto, mi dice… oh no! Lui non dice, lui fa intendere… mi fa intendere che per quella sera avevo combinato poco.

Può darsi pure che in parte avesse ragione, in parte, ma vedete: dopo che passi le tue giornate chiuso tra quattro mura e non vedi un soldo da più di due mesi, diciamo pure che inizi a rallentare il ritmo. È una cosa naturale credo.

Discutiamo, come mai prima, ero stanco e quello era il fottuto giorno del mio ancor più fottuto compleanno, la stessa precisa ora in cui sono nato tra l’altro. Mi mette una mano sul braccio come a volermi accompagnare fuori: lui non dice, lui fa intendere.

Sono sempre stato impulsivo quando si tratta di far fronte a ingiustizie vere o presunte, sempre. Beh, non nel modo in cui lo sono stato quel giorno però, ho sentito qualcosa quando mi ha toccato e ho reagito d’impeto dandogli una spinta con tutte le forze; non sono molto alto, sì e no un metro e settantacinque, ma neanche due mesi fa pesavo circa centodieci chili e lui… lasciamo perdere. È finito a terra sbattendo la testa su un vecchio tavolo da disegno e quando mi sono avvicinato per vedere come stava ho visto che aveva il collo piegato in una posizione grottesca.

"Spezzato", continuavo a pensare e non mi riferivo al collo, ma alla sua vita.

Preso dal terrore mi sono inginocchiato accanto al cadavere, l’ho strattonato, volevo che si risvegliasse, che aprisse i suoi maledetti occhi accusatori e mi guardasse, credo di averlo colpito sul petto, ma lui nulla, se ne stava lì accartocciato e non respirava più.

Mentre stringevo le mani a pugno sulla sua camicia e provavo l’irreale sensazione di disprezzo nei suoi confronti, per essere morto facendomi l’ennesimo torto, in quel momento qualcosa è passato da me a lui. Non so cosa, una scossa, una luce, un cazzo di energia che migra come il calore da un punto caldo a uno più freddo, da uno vivo a uno morto. Ha spalancato gli occhi e la bocca come se si fosse risvegliato da un brutto sogno.

Non era ferito o svenuto o stordito, era morto: MORTO!

È per questo che su queste pagine mi sono dato il nome di Lazzaro.