lunedì 16 dicembre 2013

E' normale tutto questo?

Il nome che userò su questo Blog è Sibyl.

Ho 31 anni, sono una donna.
Non ho mai avuto un blog. La mia vita era normale, noiosa. E mi stava bene così. Non ho mai sentito il minimo bisogno di fare la cronaca delle mie giornate di lavoro o di rendere noto al mondo quante calorie c’erano nella mia cena. Oggi ho invece la necessità di mettere in rete quello che mi è successo sette giorni fa, nella speranza di farmi venire in mente una spiegazione sensata.
Se qualcun altro volesse scrivere su questo blog, per condividere esperienze simili ne sarei molto felice, anche se nutro in merito veramente poche speranze. Potrei farne un blog multiutente. Chissà.
Ad ogni modo, questo è quello che mi è successo.
La settimana passata un amico – un marcantonio di quasi due metri – mi ha spezzato un dito pestandomi un piede. Tra parecchie bestemmie fummo costretti ad andare al pronto soccorso, dove mi piantarono su una sedia a rotelle, mi fecero una radiografia e poi mi portarono in ambulatorio.
E’ stato lì che ho incontrato il tale da cui è scaturito il peggior incubo lucido che io abbia mai fatto in vita mia. Era un medico, non più alto di un metro e sessanta. Gli occhi neri, nascosti dagli occhiali, piccoli come quelli di un topo, capelli radi, nonostante il fatto che non arrivasse ai 35 anni. Mi fece stendere su un lettino, guardò la radiografia e mi disse, laconico: “Signorina, niente di grave. Dobbiamo steccare.”
Il mio amico, che era entrato con me nell’ambulatorio, chiese se gli era permesso rimanere. L’uomo gli rispose con una strana nota di ironia: “E’ solo una medicazione. Aspetti fuori, le rimanderò la signorina tra dieci minuti.” Gli avrei voluto tirare un pugno in faccia. Era solo una medicazione, non un’operazione a cuore aperto: per quale motivo non era permesso assistere?
Lo sguardo del mio amico fu rassicurante. Mi disse che avrebbe aspettato fuori e che, se avessi fatto la brava mi avrebbe portata a mangiare un cornetto di mezzanotte. Vidi le sue spalle voltarsi e sparire dietro alla porta. Immediatamente dopo entrò un’infermiera, che cominciò a preparare le bende e la stecca di acciaio mentre l’uomo mi distraeva con qualche domanda di poco conto. Mi chiese quanti anni avevo se ero della città. Io risposi di malavoglia, ma se fossi rimasta zitta avrei cominciato a piangere per la frustrazione. L’uomo fece uscire anche l’infermiera, e rimanemmo soli, io e lui.
Fuori aveva cominciato a piovere: ricordo distintamente il rumore sottile e fitto delle gocce di pioggia contro le finestre e un tuono profondo, che fece tremare l’aria. Si stava preparando un acquazzone e io, ovviamente, non avevo l’ombrello.
Mentre ero distratta dalla pioggia l’uomo aveva cominciato a tastare il piede, che pulsava maledettamente. Mi guardò negli occhi, per un istante, e sorrise. In quel momento percepii qualcosa, un’inquietudine che esplose come un lampo.

Mi agitai sul lettino al punto che l’uomo dovette tenermi ferma per un braccio. “Signorina, non faccia storie” disse. “Sta tremando per un temporale?”
Ricordo nettamente che la stanza in quel momento fu illuminata da un lampo. Poi venne il dolore. L’uomo aveva compiuto un movimento brusco, preciso, che aveva rimesso nel giusto assetto le ossa del piede: i miei nervi si ribellarono, increspandosi violentemente dalla gamba al cervello, che si spense.
Rimasi con gli occhi sbarrati, sentendomi improvvisamente fuori dal mio corpo: riuscivo a vedermi con lo sguardo di quell’uomo, sentivo le sue mani scivolare lungo le ossa del mio piede e della caviglia come se fossi io a muoverle. Tentai di respirare, non ci riuscii. Il mio cuore in apnea era un tamburo. Aspettai.
 Sentii il piacere nascere dal contatto della pelle contro la pelle, e la soddisfazione che ancora fluiva in quell’uomo dopo avermi vista contorcere e perdere i sensi.
 Immagini incalzanti di ricordi che riconobbi come recenti si sovrapposero nella mia mente ad un ritmo forsennato: una ragazza bionda, distesa sul tavolo di una cucina lercia, veniva colpita da una cinghia mentre piangeva lacrime scure di mascara, implorando di essere colpita ancora; una camera da letto in penombra: una ragazza bruna tremante di paura, rannicchiata in un angolo, aveva uno zigomo gonfio.
La lussuria e un senso di onnipotenza si agitavano come serpenti nella mente di quell’uomo e per quanto tentassi in tutti i modi di tornare padrona di me, sentivo che anch’io ne stavo godendo, abbandonando ogni decenza.

Mi risvegliò, vivido, il dolore di uno schiaffo. Quello che vidi riacquisendo l’uso degli occhi fu la luce abbacinante del neon e la faccia di quell’uomo che mi guardava compiaciuto. “Non c’è motivo di fare tutte queste storie. Il piede è a posto adesso. Dovrà tenerlo così per 20 giorni. Da quanto ha quella ferita sul collo del piede? Sembra fresca ma non credo sia stata provocata dalla scarpa del suo amico."
Ferita? Quale ferita? Lo shiaffo ancora riecheggiava nelle orecchie, focalizzai dopo qualche istante quello che mi stava chiedendo il dottore e quando risposi ero furente: "Non ho niente sul piede! Di che parla?"
Alzai stupidamente la testa, per guardare. Dopo la fasciatura qualsiasi cosa ci fosse era ormai impossibile vederla.

"Ha una strana ferita superficiale, sembra il simbolo delle SS. L'ho disinfettata, guarirà insieme alla frattura, vedrà che quando toglierà la stecca sarà già sparita. Vuole che l’accompagni fuori?” Sorrise: la sua faccia si sovrappose nel mio cervello al nome di Himmler. La mia agitazione cominciò a superare gil argini della gestibilità.

Il mio amico venne a prendermi. Gli impedii di rimettermi sulla sedia a rotelle, mi feci portare in braccio fino alla macchina e nascosi la faccia tra il suo collo e la sua spalla. La pioggia si era trasformata in un temporale a tutti gli effetti: l’acqua scrosciava giù dal cielo con rabbia.
“Che hai? È solo una fasciatura!” mi disse il mio amico, non potendo capire. Il mio cuore batteva tanto violentemente che lo sentiva anche lui.
“Niente" risposi. "Portami a casa.”

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