mercoledì 18 dicembre 2013

Non lo so.

Non lo so.
Cioè… lo so il perché. Il perché sono qui.
Solo non so se sia il caso di parlarne, del mio problema. Cercavo il posto adatto per farlo e adesso che sono qui, su questo blog, respiro male e guardo il monitor e mi mordo le labbra e mi torturo le unghie… Ma ne voglio parlare, ne ho bisogno.
Ti ho trovata perché ti cercavo, dopotutto… Ho letto quello che hai scritto, Sybil. L’ho letto, e mentre lo facevo mi tremavano le dita, i polpastrelli instabili sui tasti. Ed era per me un sollievo sapere di non essere solo, ed era per me un incubo ripensare a ieri. Per me, che ho sempre avuto il controllo delle mie giornate, preciso e metodico. Io, che ho sempre avuto nella razionalità una maniglia sul vuoto. Sono confuso, ti chiedo di scusarmi. E sono in imbarazzo, anche per questo balbetto alla tastiera e sono incasinato e non si capisce cosa scrivo e dove voglio arrivare.
Se… No, aspetta. Lo scrivo chiaro e tondo, così ci capiamo: abbiamo vissuto un’esperienza simile. Sì, non proprio la stessa cosa. Un’esperienza strana. No, neanche. Folle. Come la tua per via del segno: quella specie di S che proietta un’ombra dietro di sé. Una S intrecciata, che pare la catena del dna. Oppure, come hai scritto tu, il simbolo delle SS. Te la racconto, la mia esperienza. Se riesco a farlo senza essere preso per pazzo. 
Il mio nick sarà Tiferet, non sto qui a dirti il perché, è una storia lunga, magari te ne parlerò in seguito. Ho trentatré anni, una vita semplice, giocata con discrezione. Fino a ieri. È da ieri che non dormo.
E ho sonno.
Parecchio.
Ma se chiudo le palpebre lo rivedo, e per ora è meglio stare con gli occhi spalancati. Potrebbe essere qua, dietro di me, anche ora.  
Ieri faceva un freddo niente male. Stava piovendo: buttava acqua dall’altro giorno, da lunedì. Odio la pioggia, destabilizza. Si rischia di perdere la bussola della giornata. Avevo in testa di uscire, di portare a spasso il cane. Ho un cane, si chiama Perry. Come Perry l’ornitorinco, non so se lo conosci… Non esce mai, poverino. Avevo idea di fargli prendere aria, e invece pioveva. Un sipario d’acqua che non si vedeva a due metri. I temporali sono così, hai voglia a fare progetti. Me ne stavo in piedi, le braccia incrociate dietro la schiena, spostavo il peso da una gamba all’altra, a guardare dalla finestra. Ho un cortile dissestato. È in arenaria. Nel senso che è ricavato direttamente dalla montagna. Anche le fondamenta della casa sono adagiate direttamente sulla roccia. L’arenaria si sfalda col tempo, risente dell’erosione. Il cortile si sta consumando. E io lo guardavo, dalla finestra, mentre la pioggia lo allagava, e pensavo che prima o poi lo avrei dovuto rimettere a posto, una bella colata di cemento, o piastrelle o chissà.
Sta di fatto che a un certo punto esplose il cielo, illuminato come fosse un’alba. E io buttai là un urlo. Immagina, immerso in pensieri lontani, all’improvviso, un lampo e poi un tuono feroce…
Così rimasi bloccato, la bocca spalancata, prendendo aria, e si appannò il vetro della finestra. Il cuore cavalcava. Dopo il boato, che si era mangiato tutti i suoni, gli unici rumori superstiti erano il ticchettare della pioggia e il battere furioso del mio sangue nei timpani. Pulii il vetro con la manica della felpa. Sì, lo so che non si fa, che rimane il segno… ma avevo visto qualcosa muoversi in cortile.
Ho un albero di melacotogne. E c’era del movimento, dietro al tronco nodoso. C’era anche buio però, e non vedevo bene. Lucidai gli occhiali. Li rimisi e aggrottai le sopracciglia. Un altro fulmine rischiarò la notte. E io ero là fuori, che mi guardavo.
Io.
Pensai a un riflesso, sul vetro della finestra. Misi insieme tre passi camminando all’indietro, cercai l’interruttore del faretto, battendo la mano sul muro. È un faretto potente, non lo accendo mai perché consuma parecchio. Sta di fatto che illumina tutto il cortile. Tac, la luce. E là, col naso attaccato al vetro, c’era un altro io. La pioggia gli passava attraverso.
Lui, cioè io, non si bagnava.
Lui, cioè io, era asciutto sotto il diluvio.
Mi venne normale toccarmi, perché io ero dentro casa, col dito bloccato sull’interruttore del faretto, con la bocca spalancata, e io ero anche là fuori, asciutto sotto il diluvio.
Io. Noi.
Non so se capisci. Se mi sono spiegato a dovere. Mossi l’indice quel tanto che bastava per spegnere il faretto e lui, cioè io, scomparve.
Non lo vedo da ieri. E non lo voglio vedere. Me ne sto rinchiuso in casa, non guardo fuori. Non sono neppure andato a lavoro, e questo è un problema.  
Non lo so. Ho paura, questo è un altro problema.
In più stamattina mi sono svegliato con quel segno sul collo. Sul collo. Dovrò usare la sciarpa. Ma io non sopporto la sciarpa, mi sembra di soffocare, mi pare che mi stiano impiccando. E questo è un altro problema, il più grosso.
Ma parlarne mi ha fatto bene. Non tremo più.

Dimenticavo: ha smesso di piovere.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.