Non lo so.
Cioè… lo so il perché. Il perché
sono qui.
Solo non so se sia il caso di
parlarne, del mio problema. Cercavo il posto adatto per farlo e adesso che sono
qui, su questo blog, respiro male e guardo il monitor e mi mordo le labbra e mi
torturo le unghie… Ma ne voglio parlare, ne ho bisogno.
Ti ho trovata perché ti cercavo,
dopotutto… Ho letto quello che hai scritto, Sybil. L’ho letto, e mentre lo
facevo mi tremavano le dita, i polpastrelli instabili sui tasti. Ed era per me
un sollievo sapere di non essere solo, ed era per me un incubo ripensare a
ieri. Per me, che ho sempre avuto il controllo delle mie giornate, preciso e
metodico. Io, che ho sempre avuto nella razionalità una maniglia sul vuoto.
Sono confuso, ti chiedo di scusarmi. E sono in imbarazzo, anche per questo
balbetto alla tastiera e sono incasinato e non si capisce cosa scrivo e dove
voglio arrivare.
Se… No, aspetta. Lo scrivo chiaro
e tondo, così ci capiamo: abbiamo vissuto un’esperienza simile. Sì, non proprio
la stessa cosa. Un’esperienza strana. No, neanche. Folle. Come la tua per via
del segno: quella specie di S che proietta un’ombra dietro di sé. Una S
intrecciata, che pare la catena del dna. Oppure, come hai scritto tu, il
simbolo delle SS. Te la racconto, la mia esperienza. Se riesco a farlo senza
essere preso per pazzo.
Il mio nick sarà Tiferet, non sto
qui a dirti il perché, è una storia lunga, magari te ne parlerò in seguito. Ho
trentatré anni, una vita semplice, giocata con discrezione. Fino a ieri. È da
ieri che non dormo.
E ho sonno.
Parecchio.
Ma se chiudo le palpebre lo
rivedo, e per ora è meglio stare con gli occhi spalancati. Potrebbe essere qua,
dietro di me, anche ora.
Ieri faceva un freddo niente
male. Stava piovendo: buttava acqua dall’altro giorno, da lunedì. Odio la
pioggia, destabilizza. Si rischia di perdere la bussola della giornata. Avevo
in testa di uscire, di portare a spasso il cane. Ho un cane, si chiama Perry. Come
Perry l’ornitorinco, non so se lo conosci… Non esce mai, poverino. Avevo idea
di fargli prendere aria, e invece pioveva. Un sipario d’acqua che non si vedeva
a due metri. I temporali sono così, hai voglia a fare progetti. Me ne stavo in
piedi, le braccia incrociate dietro la schiena, spostavo il peso da una gamba
all’altra, a guardare dalla finestra. Ho un cortile dissestato. È in arenaria.
Nel senso che è ricavato direttamente dalla montagna. Anche le fondamenta della
casa sono adagiate direttamente sulla roccia. L’arenaria si sfalda col tempo,
risente dell’erosione. Il cortile si sta consumando. E io lo guardavo, dalla
finestra, mentre la pioggia lo allagava, e pensavo che prima o poi lo avrei
dovuto rimettere a posto, una bella colata di cemento, o piastrelle o chissà.
Sta di fatto che a un certo punto
esplose il cielo, illuminato come fosse un’alba. E io buttai là un urlo.
Immagina, immerso in pensieri lontani, all’improvviso, un lampo e poi un tuono
feroce…
Così rimasi bloccato, la bocca
spalancata, prendendo aria, e si appannò il vetro della finestra. Il cuore
cavalcava. Dopo il boato, che si era mangiato tutti i suoni, gli unici rumori
superstiti erano il ticchettare della pioggia e il battere furioso del mio
sangue nei timpani. Pulii il vetro con la manica della felpa. Sì, lo so che non
si fa, che rimane il segno… ma avevo visto qualcosa muoversi in cortile.
Ho un albero di melacotogne. E
c’era del movimento, dietro al tronco nodoso. C’era anche buio però, e non
vedevo bene. Lucidai gli occhiali. Li rimisi e aggrottai le sopracciglia. Un
altro fulmine rischiarò la notte. E io ero là fuori, che mi guardavo.
Io.
Pensai a un riflesso, sul vetro
della finestra. Misi insieme tre passi camminando all’indietro, cercai
l’interruttore del faretto, battendo la mano sul muro. È un faretto potente,
non lo accendo mai perché consuma parecchio. Sta di fatto che illumina tutto il
cortile. Tac, la luce. E là, col naso
attaccato al vetro, c’era un altro io. La pioggia gli passava attraverso.
Lui, cioè io, non si bagnava.
Lui, cioè io, era asciutto sotto
il diluvio.
Mi venne normale toccarmi, perché
io ero dentro casa, col dito bloccato sull’interruttore del faretto, con la
bocca spalancata, e io ero anche là fuori, asciutto sotto il diluvio.
Io. Noi.
Non so se capisci. Se mi sono
spiegato a dovere. Mossi l’indice quel tanto che bastava per spegnere il
faretto e lui, cioè io, scomparve.
Non lo vedo da ieri. E non lo
voglio vedere. Me ne sto rinchiuso in casa, non guardo fuori. Non sono neppure
andato a lavoro, e questo è un problema.
Non lo so. Ho paura, questo è un
altro problema.
In più stamattina mi sono
svegliato con quel segno sul collo. Sul collo. Dovrò usare la sciarpa. Ma io
non sopporto la sciarpa, mi sembra di soffocare, mi pare che mi stiano
impiccando. E questo è un altro problema, il più grosso.
Ma parlarne mi ha fatto bene. Non
tremo più.
Dimenticavo: ha smesso di
piovere.
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