Ciao Sybil,
finalmente ti ho trovata! Ero certo di non essere solo.
Ho bisogno di
raccontare la mia storia a qualcuno che possa capirla e tu sei la persona
giusta. Perché quello che mi è successo è incredibile, ho pensato persino di
aver sognato tutto, ma so che non è così!
Bene: cominciamo
dall’inizio.
Sono Eidolon, ho
ventotto anni e vivo a Bologna.
È il 21 dicembre
e sto tornando da una festa insieme a un amico. Ci siamo divertiti molto e non
abbiamo pagato una lira, perché, oltre all’ingresso gratis, il barista ci ha
offerto un paio di Long Island omaggio. Non per generosità, ovvio: quello ci
prova con me dall’alba dei tempi.
Il punto è che
nella ricetta del Long Island c'è qualcosa che nuoce gravemente all'organismo
umano, perché sia io che Puffo, il mio amico (sì, si chiama Puffo), barcolliamo
per la via gonfi d'alcol come vecchie vedove russe.
«Ehi,» balbetto,
«che razza di festa! Ma cosa c'ha messo il barista dentro il Long Island?
Satana?»
«Tutto l'amore
che prova per te,» biascica Puffo. «Ti prego, vacci a letto il più tardi
possibile, voglio che questi omaggi non finiscano mai!»
«Ma, Puffo, io
non ci andrò a letto mai. Insomma, scherziamo? È solo un flirt
finalizzato ad alcol aggiuntivo, il sesso con quell'uomo è fuori discussione.»
Lui ridacchia e
si appoggia a una colonna del portico. «Oddio, domani chi ci va a lavoro?»
«Ah, io domani
faccio chiusura in negozio,» alzo le mani, «ho tutto il pomeriggio per
risuscitare!» Lo afferro per le ascelle e lo tiro in piedi come una marionetta.
«Andiamo, dai!»
«Ehi, voi! Avete
da accendere?»
Due tizi
appaiono alle nostre spalle: uno alto e magro con un giubbotto nero e una felpa
gialla dell’Harley Davidson – nemmeno fossimo negli anni ‘90; l’altro basso e
tarchiato, con la maglia di una qualche sconosciuta band metal che ha come
simbolo la testa di un grosso lupo nero.
«No,» rispondo
distrattamente, «non fumiamo.»
Faccio appena in
tempo a terminare la frase che il tizio alto estrae dalla tasca un coltello a
serramanico.
Puffo sbianca.
Il mio stomaco compie un’ardita capriola.
«S-stiamo
calmi,» esclamo subito, «vi diamo tutto.» M’infilo le mani in tasca e tiro
fuori uno sgualcito biglietto da dieci euro, quello con cui avrei dovuto pagare
il drink. «Ho solo queste … ma …»
«Mi prendi per
il culo?» sputacchia il tarchiato.
«No, ti giuro
che è tutto …»
«Tu non hai solo
dieci euro, frocio del cazzo,» insiste quello, sguainando un altro coltello.
«Tira fuori il resto o apriamo la faccia al tuo amico!»
In pochi
secondi, l'uomo alto agguanta Puffo, mentre l’altro gli sventola la lama vicino
alla faccia.
«Cristo, no!»
gli urlo. «Fermi! Fermi!»
Il coltello si
avvicina pericolosamente all'occhio destro di Puffo. «Vieni a fermarci tu,
finocchio?»
Un’orribile
senso d’impotenza mi travolge come una valanga, gelida e dolorosa, per poi
deformarsi in un rogo di rabbia. Quando il mio sguardo incrocia la maglia del
tizio tarchiato, quella col lupo, nella mia mente germoglia un pensiero
spontaneo, che tuttora non riesco a spiegarmi: Aiutami.
La mia ira,
finora trattenuta dagli argini della paura, straripa come un fiume in piena: un
flusso invisibile mi scaturisce dal petto ed esonda oltre il mio corpo. Ed è
allora che mi accorgo che i due tizi mi fissano atterriti.
Ma no, non
fissano me, stanno guardando qualcosa dietro di me.
Alle mie spalle,
un lupo nero grosso come un cavallo avanza tra le colonne, occhi di ghiaccio e
fauci gigantesche. La sua pelliccia fluttua liquida, indistinta come un sogno.
Mi stropiccio gli occhi, forse è l’alcol o uno stupido gioco di ombre; ma le
facce sgomente degli altri, compresa quella di Puffo, fugano ogni dubbio.
Con un latrato
il lupo mostra lunghe zanne scintillanti. I rapinatori, sguardo fisso su di
lui, lasciano andare Puffo e pian piano indietreggiano, fino a svanire
nell'intrico di colonne del portico.
Allora l'animale
si volta verso di me e mi punta addosso gli occhi azzurri.
«C-cosa vuoi?
V-via! Va’ via!»
La belva punta
dritta avanti a sé e s’incammina, svanendo nella notte.
«E quello cosa
cazzo era?» grida Puffo.
«Non lo so.»
Era il lupo della maglietta di quel tizio. Io l’ho pensato e lui è apparso.
«Andiamo a dormire, che è meglio.»
Nessuno dei due
apre bocca per tutto il tragitto, ma un pensiero fisso mi tormenta, passo dopo
passo, come un ronzio sommesso che solo io posso sentire: Quel lupo l'ho
evocato io!
Cioè aspetta, stai cercando di dirmi che quel coso peloso che ho visto dal balcone, non era dovuto alla robaccia che fumo???
RispondiEliminaMmm ... beh, quello forse sì, non saprei!
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