sabato 21 dicembre 2013

Essere o non essere?

Sapete cosa vuol dire perspicua? Di solito si definisce così una risposta, nel senso di chiara, limpida. Mi piaceva tanto l'idea di attribuirmi quel significato, visto che ormai sono diventata trasparente. Anonima, scialba? No, proprio trasparente agli occhi dell'umanità. Mi alzo, doccia, giacchetta, caffè, vado in un posto ma nessuno mi vede. Due le ipotesi: o credo di andare e in realtà non vado, oppure la gente non mi vede perché sono invisibile. Se mi sono fermata a leggere i vostri deliri su questo blog è perché sono sola, lontana mille chilometri da casa, senza uno straccio di amico o amante a tenermi la mano mentre cerco di convincermi di non essere pazza da legare. E' lo stress, mi ripeto da mesi, è lo stress a farmi pensare che mi accadano cose che non sono possibili. Da quando è affiorato sul collo un segno rosso, come una doppia s intrecciata. Ho pensato ad una dermatite, inizialmente, sperando che passasse senza dover consultare un medico. Non troverei un buco in agenda per andare a farmi una visita neanche piangendo. Invece è sempre là, forse lievemente più appiattita. La copro con i foulard perché lavoro in televisione, non vorrei che da casa avessero l'impressione di una cronista/vampira, con i punti sul collo. Mi ci manca giusto quello, già credono tutti che porti male, in redazione. Il caporedattore mi ha trasferita con un calcio nel sedere proprio per farmi cambiare aria, anche se formalmente si tratta di una promozione. Inviata speciale per una serie di omicidi avvenuti nelle campagne di una cittadina di centomila anime. Lasciare la metropoli per infilarmi in un buco di posto dove sembrano aver scoperto ora l'aperitivo mi è costato caro, ma non avevo alternative. Ho le bollette da pagare e una particolare debolezza per le borse firmate: quindi devo lavorare, e parecchio. L'unico elemento positivo è che faccio base in una tv locale dove mi trattano bene, come se fossi importante. I cameraman che si alternano al mio fianco sono dei bravi ragazzi, semplici, roba che da noi non esiste più. Insomma, trovo quasi il verso di farmi piacere la situazione, quando una mattina tocco il fondo. Faccio il giro di nera (ovvero le telefonate alle forze dell'ordine per sapere se va tutto bene) e mi dicono che è saltato fuori un altro cadavere. Sempre una prostituta, di circa venti anni, uccisa con un coltellaccio da macellaio dopo un rapporto (uno?), lasciata sul ciglio della strada con una rosa rossa in mano. Avendola mollata in bella vista sulla provinciale, ormai, la cosa è sulla bocca di tutti. E poi c'è la rosa, il suo marchio, il folle ha colpito ancora. Va beh, mi danno l'indirizzo, telefono al cameraman chiedendogli di raggiungermi direttamente là. Arrivo prima che posso, ma vedo già un sacco di telecamere puntate sulla strada. Male, roba da prima pagina, coi titoloni. Squilla e vibra il telefono che ho in tasca, il caporedattore mi chiede un collegamento in diretta; mandano un furgone regia. Sento la schiuma salirmi alla bocca. Non vi ho detto che odio il mio lavoro, vero? Lo odio, detesto con tutta me stessa andare in onda. Mi fa schifo rivedermi, mi sento una deficiente, con una voce orribile. E non è una cosa recente, scappavo anche da piccola di fronte all'obiettivo. Sognavo di diventare una giornalista, di quelle brave, che scrivono belle al chiuso in una redazione piena di fumo. Invece sono capitata in una televisione dove mi fanno condurre anche il telegiornale. Non so come il mio cuore abbia retto allo stress, in tutti questi anni. Sono riuscita a non farmi mai venire un attacco di panico in onda, ho un autocontrollo incredibile, ma temo sia solo questione di tempo. I collegamenti in diretta sono la cosa che detesto di più, oltre al tg. Devi star ferma con in microfono in mano e dire cosa sta accadendo, ovunque tu sia. Con la gente intorno che ti guarda… Vedo i colleghi tenuti a distanza dal cadavere, già coperto con il telo bianco, e li raggiungo. Sto per salutarli ma qualcosa mi blocca. Nessuno si è voltato verso di me, nemmeno impercettibilmente. Agito la mano con il palmo ben aperto, con un gesto da mimo; nulla. Mi scappa da ridere. Alzo il dito medio e lo metto davanti al naso di una collega grassottella che pensa di sapere sempre tutto lei. Niente, come se non esistessi. Nel frattempo arriva il mio cameraman, che saluta e chiede se mi hanno vista. Rispondono in coro di no. Le gambe mi tremano, sono sul punto di vomitare (il vomito si sarebbe visto, secondo voi?). Torno con passo incerto verso la macchina, apro la portiera dopo un paio di tentativi andati a vuoto e mi infilo sul sedile posteriore, sdraiandomi. Il cellulare inizia a squillare. È il cameraman che mi cerca. Scatto in piedi, come se qualcuno mi avesse schiaffeggiata con forza. Mi vede e si avvicina prendendomi in giro. «Non si dorme sul lavoro», aggiunge a bassa voce. Mi vede, capite? Sono tornata “visibile”. Scendo frastornata, lo saluto e accenno un ciao da lontano agli altri, che ricambiano. Quindici minuti al collegamento in diretta, con la mente fissa su quello che è successo, col terrore di sparire davanti alla telecamera. Recupero un po' di autocontrollo, fila tutto liscio. Sono tornata in albergo per buttarmi in rete: ho trovato voi, che mi sembrate messi male come me. Avevo già avuto qualche problema nei mesi passati, ma ora mi terrorizza anche la sola idea di mettere il naso fuori. Voi pensate di parlarne con i vostri familiari o per ora tacete? Di sicuro andrò dal medico per farmi vedere quella macchia sul collo, non vorrei che fosse il segno di qualcosa di grave, che mi sta fulminando il cervello. 

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