martedì 24 dicembre 2013

Il fascino del lato oscuro

Questo blog è un miracolo. Ne avevo assolutamente bisogno, perché se non lo racconto a qualcuno impazzisco. Sì, potrei confidarmi con gli amici più fidati, o con la mia famiglia, ma non credo che lo farò. Perché il mio potere, quello che ho scoperto di avere, beh.. è molto inquietante. E molto, molto seducente. Se fossimo in un fumetto, probabilmente rischierei di diventare un supercriminale, o forse no, non lo so.
Sto divagando, lo so. Per tornare al punto della questione il mio nickname sarà D.E.M. che sta per “deus ex machina.” Pretenzioso e arrogante, forse sì, ma state a sentire.
È iniziata otto giorni fa. Mi sono alzato con un mal di testa bestiale, io che i mal di testa non ne ho mai sofferto. Mi sono comunque vestito, fatto colazione e sono andato al lavoro. Era il mio ultimo giorno di contratto in fabbrica, l’ennesimo di una lunga serie, maledetta crisi. Non dirò che cosa producevamo, preferisco non dare indizi, diciamo che la fabbrica era grande e lavoravamo a turni. Il posto  non era male, mi trovavo bene, tolti i soliti colleghi rompiballe e il capoturno, diciamo “antipatico”.
Nella condizione in cui mi trovavo quella mattina andavo molto a rilento. Al mio collega che lavorava al macchinario con me avevo detto come mi sentivo, e lui si era offerto di coprirmi. Il problema era il capoturno. Vedendomi lavorare con una certa fiacca mi si avvicinò e mi urlò nell’orecchio: «Va bene che è il tuo ultimo giorno qui, XXXXXX, ma se non muovi il culo col cazzo che ti richiamiamo, hai capito?»
«Lascialo stare, XXXXX, stamattina non sta bene.» mi aveva difeso il mio collega.
«Non ce l’ha un’aspirina a casa sua?» aveva replicato il capoturno, per poi andarsene.
Per me era troppo. Non sono un tipo violento, lo giuro. Avrò fatto al massimo una rissa in vita mia, ed ero pure l’aggredito. Ma in quel momento sbottai. Mi girai e gli urlai: «Ma datti una martellata sulle palle, stronzo!»
Il capoturno non perse un attimo: prese un martello dal carrello degli attrezzi lì accanto e, con precisione chirurgia, si diede una violenta martellata sui gioielli. Un urlo lacerante superò il rumore delle macchine. Una dozzina di persone, compreso il mio collega, corse a prestare soccorso all’uomo, mentre io ero rimasto impietrito al mio posto. Non potevo essere stato io, mi ripetevo, non ero stato io. Come potevo aver fatto? Il mio collega mi fissava, e io lo fissavo di rimando, ma il mio sguardo sgomento evidentemente diceva tutto. Tanto più che, quando il capoturno si riprese, non seppe spiegare l’accaduto. Non si ricordava del litigio con me e di quello che gli avevo urlato.
La dirigenza archiviò il tutto come “incidente” –incidente? – e io terminai il mio turno senza altri problemi. Salutai tutti – compreso il mio collega che continuava a fissarmi in modo strano - e me ne andai subito a casa.
Mentre tornavo, rimuginando sull’accaduto, mi accorsi che qualcosa mi bruciava all’altezza dell’anca. Fermai l’auto al lato della strada e mi scamiciai. All’altezza dell’anca sinistra c’era una specie di segno, non capivo se una voglia o un’ustione. Sembravano due fulmini che si concatenavano, o come hanno detto gli altri, il simbolo del DNA. Era inquietante. Poteva essere collegato a quello che era successo? No, pensai, era stato un caso, non poteva essere.
Mi ricordai che dovevo prendere il pane. A casa i miei, con cui vivo, non c’erano quel giorno e perciò dovevo provvedere da me. Parcheggiai dall’altra parte della strada rispetto al panificio ma, mentre stavo per attraversare, un motociclista della domenica mi sfrecciò davanti come se stesse partecipando a una gara al Mugello. «Ma perché non ti schianti contro un palo, pirata della strada!» gli urlai.
Lui, senza colpo ferire scartò e tirò dritto contro un palo della luce. Mentre attorno a me si scatenava il finimondo, una parte di me inorridiva mentre l’altra si fregava le mani con gioia sadica.

Ero io. Ero stato io. Io avevo quel potere. E adesso? Che faccio?

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