Questo blog è un
miracolo. Ne avevo assolutamente bisogno, perché se non lo racconto a qualcuno
impazzisco. Sì, potrei confidarmi con gli amici più fidati, o con la mia
famiglia, ma non credo che lo farò. Perché il mio potere, quello che ho
scoperto di avere, beh.. è molto inquietante. E molto, molto seducente. Se
fossimo in un fumetto, probabilmente rischierei di diventare un supercriminale,
o forse no, non lo so.
Sto divagando, lo so.
Per tornare al punto della questione il mio nickname sarà D.E.M. che sta per
“deus ex machina.” Pretenzioso e arrogante, forse sì, ma state a sentire.
È iniziata otto giorni
fa. Mi sono alzato con un mal di testa bestiale, io che i mal di testa non ne
ho mai sofferto. Mi sono comunque vestito, fatto colazione e sono andato al
lavoro. Era il mio ultimo giorno di contratto in fabbrica, l’ennesimo di una
lunga serie, maledetta crisi. Non dirò che cosa producevamo, preferisco non
dare indizi, diciamo che la fabbrica era grande e lavoravamo a turni. Il
posto non era male, mi trovavo bene,
tolti i soliti colleghi rompiballe e il capoturno, diciamo “antipatico”.
Nella condizione in cui
mi trovavo quella mattina andavo molto a rilento. Al mio collega che lavorava
al macchinario con me avevo detto come mi sentivo, e lui si era offerto di
coprirmi. Il problema era il capoturno. Vedendomi lavorare con una certa fiacca
mi si avvicinò e mi urlò nell’orecchio: «Va bene che è il tuo ultimo giorno
qui, XXXXXX, ma se non muovi il culo col cazzo che ti richiamiamo, hai capito?»
«Lascialo stare, XXXXX,
stamattina non sta bene.» mi aveva difeso il mio collega.
«Non ce l’ha
un’aspirina a casa sua?» aveva replicato il capoturno, per poi andarsene.
Per me era troppo. Non
sono un tipo violento, lo giuro. Avrò fatto al massimo una rissa in vita mia,
ed ero pure l’aggredito. Ma in quel momento sbottai. Mi girai e gli urlai: «Ma
datti una martellata sulle palle, stronzo!»
Il capoturno non perse
un attimo: prese un martello dal carrello degli attrezzi lì accanto e, con
precisione chirurgia, si diede una violenta martellata sui gioielli. Un urlo
lacerante superò il rumore delle macchine. Una dozzina di persone, compreso il
mio collega, corse a prestare soccorso all’uomo, mentre io ero rimasto
impietrito al mio posto. Non potevo essere stato io, mi ripetevo, non ero stato
io. Come potevo aver fatto? Il mio collega mi fissava, e io lo fissavo di
rimando, ma il mio sguardo sgomento evidentemente diceva tutto. Tanto più che,
quando il capoturno si riprese, non seppe spiegare l’accaduto. Non si ricordava
del litigio con me e di quello che gli avevo urlato.
La dirigenza archiviò
il tutto come “incidente” –incidente? – e io terminai il mio turno senza altri
problemi. Salutai tutti – compreso il mio collega che continuava a fissarmi in
modo strano - e me ne andai subito a casa.
Mentre tornavo,
rimuginando sull’accaduto, mi accorsi che qualcosa mi bruciava all’altezza
dell’anca. Fermai l’auto al lato della strada e mi scamiciai. All’altezza
dell’anca sinistra c’era una specie di segno, non capivo se una voglia o
un’ustione. Sembravano due fulmini che si concatenavano, o come hanno detto gli
altri, il simbolo del DNA. Era inquietante. Poteva essere collegato a quello
che era successo? No, pensai, era stato un caso, non poteva essere.
Mi ricordai che dovevo
prendere il pane. A casa i miei, con cui vivo, non c’erano quel giorno e perciò
dovevo provvedere da me. Parcheggiai dall’altra parte della strada rispetto al
panificio ma, mentre stavo per attraversare, un motociclista della domenica mi
sfrecciò davanti come se stesse partecipando a una gara al Mugello. «Ma perché
non ti schianti contro un palo, pirata della strada!» gli urlai.
Lui, senza colpo ferire
scartò e tirò dritto contro un palo della luce. Mentre attorno a me si
scatenava il finimondo, una parte di me inorridiva mentre l’altra si fregava le
mani con gioia sadica.
Ero io. Ero stato io.
Io avevo quel potere. E adesso? Che faccio?
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