giovedì 10 aprile 2014

Missione di salvataggio parte 2

«Sì, è ancora nella sua stanza.»
«Andiamo!»
Usciti dall’ufficio ci passano accanto due medici con i camici sbottonati che sciamano nel corridoio come fantasmi. Uno di loro getta un’occhiata di sfuggita, è la sola cosa che la sua premura gli consente e quando svoltiamo l’angolo sento D.E.M. che torna a respirare.
«È qui.» Dice la capo-sala: con la propria volontà annientata sembra una marionetta vuota.
Il corridoio si chiude più avanti; dal rettangolo di una finestra vedo una periferia sconosciuta.
Quando afferro la maniglia della stanza, la porta dei bagni lì accanto si apre e ne vengono fuori due carabinieri. Hanno ancora gocce d’acqua sulla faccia, il cappello in mano, gli occhi segnati.

«Non ha funzionato?»
«No. E non so perché.» Siamo sul letto, i vestiti infangati abbandonati in un angolo della stanza, sul tappeto, Zippiri guaisce nel sonno.
«Io… ti credo.» Nel buio sento la mano di Jessica andare in cerca della mia sopra le lenzuola. «Forse se… non lo so è assurdo…»
«Molte cose sono assurde ormai.»
Le mani s’incontrano. Le dita s’intrecciano.
«Il tuo potere ha bisogno di essere migliorato. U-u-usandolo. Esercitandolo.»”

«Scusate! Vorremmo salutare ancora il nostro collega.» Da quanto tempo siamo lì a fissarci?
Faccio un cenno d’assenso a D.E.M. poi dico: «Solo tre minuti poi dobbiamo…» Esito, mi tradisco, non mi viene nulla.
«Cambiare la salma. Sta arrivando la famiglia» dice D.E.M. e io lo ringrazio con uno sguardo. I due sono troppo affondati nel loro dolore per realizzare che a parlare sono stati sue O.S.S. che hanno le mani “sgombere” mentre in mezzo a loro sta la capo-sala come uno straccio dimenticato.
Entriamo. Uno dei carabinieri quasi si getta sul letto e piange, la divisa frusta non salva il suo contegno. L’altro sta in piedi e strizza gli occhi.

Ricordo la corsa tra le lapidi e la luce della torcia che traballa investendo la pioggia. Nella stanza d’ospedale scuoto la testa come per liberarmi dall’acqua sul viso. I carabinieri impiegano il tempo pattuito per il loro lutto e io vedo Jessica seduta sui gradini della chiesa in cimitero; piange e sussulta con le ginocchia strette al petto, le chiavi le sono cadute poco distante.

«Come procediamo?» chiede D.E.M. appena la porta si è chiusa.
«Pensi che lei possa ricordare se vede?»
«Non saprei, credo di no!»
«Falla sedere sull’altro letto, faccia alla finestra. Assicurati che non si volti.»
Mi avvicino al letto, la mia ombra cade sul corpo del morto.
«Siediti qui!» dice D.E.M alla capo-sala e voltandomi un attimo vedo che si piazza davanti a lei per osservare.
Spero di non tradire la sua fiducia, ha funzionato due volte: deve funzionare pure ora.
Fuori uno degli altri due scoppia a piangere senza controllo, mi volto di nuovo e vedo D.E.M in apprensione, il battito del cuore mi cresce nel petto, ho una bara aperta davanti agli occhi, un cane che dorme, una mano sulle lenzuola, Jessica che piange, pioggia che scroscia. Il mio braccio mi catapulta sul letto per afferrare quello del carabiniere. Devo stringere gli occhi mentre il segno s’illumina come crepe aperte sul terreno di un vulcano.
Lo sento passare… “La” sento passare, perché quella è vita che si trasferisce. È come se lo stessi richiamando indietro da un fosso mentre lui mi tira a sé. È un gioco di forza: l’ho capito in quel momento.
Apre gli occhi, butta fuori l’aria dai polmoni. Mi guarda sbattendo le palpebre e in quel momento D.E.M. mi tira via da lì. «Devi dimenticare tutto quello che è successo, non hai mai visto né me, né lui.» Mi indica affinché sia chiaro. Il carabiniere fa di sì con la testa. Disorientato, ma convinto.

Usciamo, quelli di fuori ci notano appena, ma D.E.M. si piazza loro davanti e ripete la frase, quando loro acconsentono a scordarsi di noi, mi guida verso un’uscita secondaria sul lato sud.
«Avranno una bella sorpresa!» Accenno alla folla di giornalisti che si accanisce attorno a un’auto appena arrivata.
D.E.M. mi sorride e io colgo tutto il suo sollievo. Gli poso una mano sulla spalla e sorrido di rimando

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