Mi piace scrivere…
Si chiama Zippiri
ed è una palla di pelo scuro di neanche quattro anni. Zippiri, nel mio dialetto,
significa rosmarino, ma a saperlo prima l’avremmo chiamato prezzemolo: deve
essere un segnato pure lui e avere il dono di replicare se stesso, ovunque tu
vai in casa te lo trovi sempre davanti. In lui convivono l’animo dolce e
guerriero del beagle suo padre e quello curioso e molesto del yorkshire sua
madre.
Quando sono
rientrato mi ha accolto facendo le feste; porta con sé un turbinio d’aria
fresca quando muove la coda e salta disordinatamente in tutte le direzioni. Tu
lo chiami e lui si agita ancora di più; alle volte scappa a correre avanti e
indietro per il cortile con le unghie che sfregano sul battuto di cemento,
altre volte si siede sulle zampe posteriori e si rialza con un guaito come se
qualcosa d’invisibile gli avesse rifilato un calcio. Stranezze da cani mi dico.
Gli ho riempito
la ciottola. Non mangia mai la mattina, ma quello… si fa così con i condannati
giusto? E poi dovevo distrarlo in qualche modo: riso soffiato e scatoletta di
carne, crocchette e pure un bel pezzo di fettina avanzato dal giorno prima.
Mi sono seduto,
l’ho guardato mangiare: divarica bene le zampe assumendo una posizione solida,
ogni tanto solleva gli occhi e mi osserva senza smettere di masticare, scuote
appena la coda per ringraziare. Io gli accarezzo la schiena e con un piede
accosto la ciottola che altrimenti porterebbe in giro per tutto il cortile con
le sue lappate.
In quel momento
squilla il telefono (sì, quello nuovo regalo di compleanno).
«Pronto?»
«Sì, pronto, ti
disturbo?»
«No ingegnere,
prego!»
Mi alzo. Il
cane mangia ancora.
«Ma come mai
non sei venuto oggi?»
«Sono ancora a
casa della mia fidanzata: sono a letto! Mi sono fatto male alla schiena.»
«Ti è successo
di nuovo?»
«E già, stessa
cosa dell’altra volta.»
«A questo punto
ci vediamo… tra quanto?»
La mano si
chiude su un pezzo di legno. È delle dimensioni giuste: non troppo lungo,
sufficientemente pesante per un colpo solo… non sopporterei di doverlo usare
due volte.
«L’ultima volta
c’è voluto una settimana per alzarmi dal letto. Facciamo tra due?»
«Così tanto? Ma
dove ti sei fatto male di preciso?»
«Esattamente
dove l’altra volta.»
“Chiaro no?”
Penso.
«Beh allora ci
vediamo quando guarisci… è che bisognava portare a termine quel progetto… va
beh dai… arrivederci, arrivederci.»
«Arrivederci.»
Chiudo la
chiamata e cancello il numero, non lo sentirò più e mi sorprendo di quanto è
stato facile. Per un attimo ripenso alle tante discussioni con la mia
fidanzata, lei che mi esorta a non andare più in quello studio perché tanto a
stare lì per tutto il giorno mi fa solo incazzare. «E poi ti paga solo quando
si ricorda! Resta a casa, mettiti a scrivere. Ti piace scrivere, mettiti a
farlo così ti vedo felice.»
Sì, mi piace
scrivere, ma so che i sogni hanno ali troppo fragili per volare con il vento
che tira.
Calo il bastone
con tutte le forze: nemmeno un guaito, solo il rumore della ciottola che si
spacca e si rovescia spargendo riso soffiato e crocchette dappertutto. Cade su
un fianco, un sussulto e niente più. Il colpo gli ha fatto sputare fuori un
pezzo di fettina e un fiotto di sangue e bava. Gli occhi sono rovesciati, credo
che siano gli occhi che maggiormente impressionano nella morte: ora capisco
appieno il senso di chiuderli.
Getto via il
bastone, m’inginocchio al suo fianco, lo accarezzo sulla schiena e sulla pancia
grossa che si è fatto. Lo chiamo, ma non succede nulla. Il cuore inizia ad
accelerare e sento la nausea riempirmi le narici. “Non passa nulla” penso e
intanto chiudo le mani sul pelo morbido. Lo scuoto, impreco: “non passa nulla”,
allontano la ciottola e mi siedo, mi tolgo il maglione e rimango a petto nudo
abbracciandolo: “non passa nulla”. Resta inerme, quasi un peluche se non fosse
per il sangue rosso scuro che gli imbratta il muso.
Mi piace
scrivere e ora mi ritrovo a scrivere questa specie di diario che, visto il mio
potere, assomiglia tremendamente a un necrologio.
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