giovedì 27 febbraio 2014

AMICO FEDELE


Mi piace scrivere…

Si chiama Zippiri ed è una palla di pelo scuro di neanche quattro anni. Zippiri, nel mio dialetto, significa rosmarino, ma a saperlo prima l’avremmo chiamato prezzemolo: deve essere un segnato pure lui e avere il dono di replicare se stesso, ovunque tu vai in casa te lo trovi sempre davanti. In lui convivono l’animo dolce e guerriero del beagle suo padre e quello curioso e molesto del yorkshire sua madre.
Quando sono rientrato mi ha accolto facendo le feste; porta con sé un turbinio d’aria fresca quando muove la coda e salta disordinatamente in tutte le direzioni. Tu lo chiami e lui si agita ancora di più; alle volte scappa a correre avanti e indietro per il cortile con le unghie che sfregano sul battuto di cemento, altre volte si siede sulle zampe posteriori e si rialza con un guaito come se qualcosa d’invisibile gli avesse rifilato un calcio. Stranezze da cani mi dico.
Gli ho riempito la ciottola. Non mangia mai la mattina, ma quello… si fa così con i condannati giusto? E poi dovevo distrarlo in qualche modo: riso soffiato e scatoletta di carne, crocchette e pure un bel pezzo di fettina avanzato dal giorno prima.
Mi sono seduto, l’ho guardato mangiare: divarica bene le zampe assumendo una posizione solida, ogni tanto solleva gli occhi e mi osserva senza smettere di masticare, scuote appena la coda per ringraziare. Io gli accarezzo la schiena e con un piede accosto la ciottola che altrimenti porterebbe in giro per tutto il cortile con le sue lappate.
In quel momento squilla il telefono (sì, quello nuovo regalo di compleanno).
«Pronto?»
«Sì, pronto, ti disturbo?»
«No ingegnere, prego!»
Mi alzo. Il cane mangia ancora.
«Ma come mai non sei venuto oggi?»
«Sono ancora a casa della mia fidanzata: sono a letto! Mi sono fatto male alla schiena.»
«Ti è successo di nuovo?»
«E già, stessa cosa dell’altra volta.»
«A questo punto ci vediamo… tra quanto?»
La mano si chiude su un pezzo di legno. È delle dimensioni giuste: non troppo lungo, sufficientemente pesante per un colpo solo… non sopporterei di doverlo usare due volte.
«L’ultima volta c’è voluto una settimana per alzarmi dal letto. Facciamo tra due?»
«Così tanto? Ma dove ti sei fatto male di preciso?»
«Esattamente dove l’altra volta.»
“Chiaro no?” Penso.
«Beh allora ci vediamo quando guarisci… è che bisognava portare a termine quel progetto… va beh dai… arrivederci, arrivederci.»
«Arrivederci.»
Chiudo la chiamata e cancello il numero, non lo sentirò più e mi sorprendo di quanto è stato facile. Per un attimo ripenso alle tante discussioni con la mia fidanzata, lei che mi esorta a non andare più in quello studio perché tanto a stare lì per tutto il giorno mi fa solo incazzare. «E poi ti paga solo quando si ricorda! Resta a casa, mettiti a scrivere. Ti piace scrivere, mettiti a farlo così ti vedo felice.»
Sì, mi piace scrivere, ma so che i sogni hanno ali troppo fragili per volare con il vento che tira.
Calo il bastone con tutte le forze: nemmeno un guaito, solo il rumore della ciottola che si spacca e si rovescia spargendo riso soffiato e crocchette dappertutto. Cade su un fianco, un sussulto e niente più. Il colpo gli ha fatto sputare fuori un pezzo di fettina e un fiotto di sangue e bava. Gli occhi sono rovesciati, credo che siano gli occhi che maggiormente impressionano nella morte: ora capisco appieno il senso di chiuderli.
Getto via il bastone, m’inginocchio al suo fianco, lo accarezzo sulla schiena e sulla pancia grossa che si è fatto. Lo chiamo, ma non succede nulla. Il cuore inizia ad accelerare e sento la nausea riempirmi le narici. “Non passa nulla” penso e intanto chiudo le mani sul pelo morbido. Lo scuoto, impreco: “non passa nulla”, allontano la ciottola e mi siedo, mi tolgo il maglione e rimango a petto nudo abbracciandolo: “non passa nulla”. Resta inerme, quasi un peluche se non fosse per il sangue rosso scuro che gli imbratta il muso.

Mi piace scrivere e ora mi ritrovo a scrivere questa specie di diario che, visto il mio potere, assomiglia tremendamente a un necrologio.

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