mercoledì 19 febbraio 2014

Come i cani



È dietro al polpaccio sinistro, sembra un tatuaggio. Non lo è. L’ho trovato tre giorni fa mentre mi facevo la doccia. “Sembra il marchio di Berserk”, mi sono detto all’inizio. Poi mi sono preoccupato. Non mi prudeva, non mi dava fastidio. Però era lì, come una cicatrice apparsa dal nulla, senza che mi ferissi.
Non sono andato a lezione, quella mattina. Sono andato dalla dottoressa. Già prima sapevo che non era una cima, ma ci sono andato lo stesso. Secondo lei si trattava di un fungo.
«E come l’avrei preso?», ho chiesto.
Non ha saputo rispondermi, però mi ha prescritto una pomata. Secondo lei sarebbe diminuito già dopo un giorno.
L’ho detto che non è una cima, no?
Be’, dopo un giorno, cioè l’altro ieri, non era diminuito. Anzi, il colore si era fatto più scuro. Così ho fatto esattamente quello che dico alla mia ragazza di non fare mai: ho cercato informazioni su Internet.
E ho trovato questo blog.
Ho passato tutta la sera a leggere ciò che avevate postato. Non ci credevo. A me non era successo niente. Avevo solo quel simbolo che penetrava sempre di più sotto la pelle. Ma niente superpoteri.
Ieri mi sono svegliato e gli occhi mi prudevano. Sono tornato su questo blog, ma ho dovuto smettere di leggere: iniziavo a vedere tutto sfocato. Mi sono messo a letto, ho dormito un poco. Quando mi sono svegliato, due ore dopo, alle 11.00, gli occhi mi facevano proprio male. Era come quando ero piccolo, e per disinfettare le ferite si usava l’alcool. Erano fitte che duravano qualche secondo e poi passavano.
Ho visto abbastanza Heroes e Misfits per sapere che queste cose non finiscono bene. Mi sono sistemato una pezza bagnata sugli occhi e mi sono sdraiato di nuovo.
Mi sono svegliato alle 16.00. Il dolore era passato.
Ma non vedevo più i colori.
È strano, vedere tutto grigio, come i cani.
Ho cercato il numero di un oculista, ho chiamato dicendo che era un’emergenza. Cavolo, lo era. Mi sono precipitato da lui.
Acromatopsia. Ho dovuto provarci tre volte, prima di riuscire a pronunciare questa parola. Una malattia degenerativa, ha detto. Oppure cerebrale, un altro modo per dire che ho un tumore. Ha detto che difficilmente i miei coni torneranno a posto. È praticamente impossibile che veda di nuovo i colori, ha detto.
Non volevo crederci.
Mi ha prescritto una TAC. Se l’esito sarà negativo, dovrò ripassare da lui.
Poi ho capito che non sarebbe stato necessario.
È successo in Piazza Castello, nel centro di Torino, ieri sera, mentre stavo tornando a casa dopo la visita. Lì ho rivisto un colore. Rosso.
A Torino i pedoni non rispettano molto i semafori, non serve. Basta stare attenti e guardare che non stia per passare il tram.
Dall’altra parte della strada c’era un capannello di persone. Turisti, tutti bianchi e neri e grigi ad aspettare che si accendesse la luce in basso del semaforo. Scusate, la luce verde. Questa cosa non è più molto importante per me. Saranno state una ventina di persone e poi è sbucata lei: una ragazza che brillava di rosso.
E io sono rimasto bloccato a fissarla. Non avete idea di cosa significhi vedere un solo colore, concentrato in una donna, brillare come un’aura.
Forse l’oculista aveva sbagliato, magari si trattava solo di una forma di affaticamento.
Poi è passato il tram.
E la ragazza ha spinto uno degli uomini, un vecchio, sotto al vagone.
Ho sentito lo stridio delle ruote di metallo e le urla dei turisti. Una donna di fianco a me ha vomitato. Io ho attraversato la strada di corsa, ma la ragazza che brillava di rosso era scomparsa.

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