martedì 18 febbraio 2014

JEJE


A scavare fosse si perde tempo…

Era stordito certo e perdeva pure sangue da un taglio sulla testa, ma che altro? Niente: niente di niente.
«Cos’è successo?»
«È scivolato e ha battuto la testa.»
«Ma che coglione che sono!»
“Già!” Pensai, «forza! L’accompagno al pronto soccorso.»
Prima sono corso in bagno a sciacquarmi la faccia; ero terreo in volto come certe ragazzine che si spalmano tonnellate di fondotinta per seppellire i brufoli. Mi sentivo spossato, le mattonelle alle pareti sembravano liquefarsi, la maglietta era attaccata alla schiena da secchiate di sudore. È lì che ho scoperto il segno sul bicipite, era quasi evanescente come una vecchia smagliatura sulla pelle. In quel momento fui sicuro che per resuscitarlo una parte della mia vita, accorciandosi, si è trasferita in lui: “l’ennesimo sgarbo di quel pezzo di merda!” Pensai, ma ce di più, ero stremato, affannavo, se avessi dovuto ripetere il “miracolo” avrei fallito: ne ero sicuro… sicurissimo.
Ho passato un intero fine settimana con la stessa frase tra i denti: «… Non ho niente, sono solo un po’ stanco, tutto qua...» Sulle labbra un sorriso che pareva ottenuto con una pinzatrice. Io e la mia ragazza abitiamo a cento chilometri di distanza e ci vediamo solo il sabato e la domenica; sapete: mi ha regalato un telefono per il compleanno e io sono stato capace di ripetere solo quelle parole per tutto il tempo. Abbiamo litigato, ma non posso certo biasimarla, quando uno se ne sta zitto per tutto il tempo è normale no? Non abbiamo fatto l’amore, non stavolta, temevo che spogliandomi avrebbe notato il segno capendo in qualche modo ciò che avevo fatto: quante delle vostre donne (o uomini) capiscono il vostro stato d’animo con una semplice occhiata? E non parlo di essere bravi o cattivi attori.
Quando, lunedì all’alba, ci siamo salutati lei ha pianto e io avevo il volto livido. Ho pianto pure io quando il treno è partito, di nascosto, stando seduto sul cesso come fanno gli uomini patetici. La luce del bagno come un’accusa accecante puntata sulla testa, fuori dal finestrino solo sagome annerite stagliate contro lo sbiadito azzurro-verde dell’orizzonte; oltre la porta chiusa, nell’isoloto in mezzo al vagone, alcuni ragazzini ridevano e facevano casino. Uno diceva che sabato notte si era ridotto da buttare via, l’altro era riuscito a infilare la mano dentro le mutandine della sua amica; a detta sua a lei era piaciuto immensamente anche se era solo per qualche secondo: ma che volete, si fa quel che si può! In quel momento sentii il bisogno dell’uno e dell’altro, ma avevo solo acqua non potabile del lavabo incrostato e la mia fidanzata era già a dieci chilometri di distanza e per tutto il tempo che mi era stata vicina non l’avevo nemmeno sfiorata. A proposito: si chiama Jessica e una vita fa le ripetevo sempre che ha gli occhi tondi e gli zigomi sporgenti.
Quel lunedì sono tornato a lavoro; mi sono fermato davanti al palazzo dove c’è lo studio, ho esitato, le chiavi mi sono scivolate di mano e le ho lasciate lì in terra: non potevo tornare in quella stanza dopo quello che era successo, non potevo parlare a quell’uomo guardandolo in faccia e specchiandomi nei suoi occhi morti.
Ho preso a camminare e arrovellarmi il cervello, pensavo che in quello stesso istante qualcuno stava morendo (e chissà quante vite si sono spente nel momento in cui scrivo). Avere il dono di resuscitare la gente senza quello dell’ubiquità è una gran bella fregatura! E poi c’è il fatto che sembro aver bisogno di tempo per “ricaricarmi”: nel momento in cui vagavo senza meta il segno aveva ripreso le sue sfumature di fiamma sul bicipite. Alla fine sono tornato alla macchina, ho messo in moto e quando ho parcheggiato di nuovo erano le undici e l’alto muro del cimitero si spiegava come un’ala dissecata oltre il parabrezza.

C’è solo un modo per andare a fondo alle cose ed è quello di affrontarle. A scavare fosse si perde tempo… così quando sono rientrato a casa ho ucciso il mio cane.

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