lunedì 10 febbraio 2014

LAZZARO

Qui va tutto male…

Seguo le vostre storie da tempo, ma solo ora ho deciso di scrivere; non so se qui troverò conforto o aiuto oppure una soluzione al mio problema: il mio segno è sul bicipite e assomiglia tanto a un marchio a fuoco che si distende quando allungo il braccio e si contrae come lo ripiego. Potrei dire che è una fenice ma credo che sia come quella macchia d’inchiostro nel test di Rorschach.

Ho atteso… ho atteso perché avevo bisogno di conferme, di sperimentare, essere certo di quali fossero le mie possibilità e quali i miei limiti.

Ho letto di chi si è rinchiuso in casa. L’ho fatto pure io all’inizio, per due giorni, con le persiane chiuse e la carta di giornale sotto la porta per non vedere la luce, ma seppellirmi al buio non serve, non riesco nemmeno a seppellire il mio potere dentro le pieghe di me stesso: Come posso far finta che non ci sia?

Ciò che scrivo lo faccio d’impulso, cercando di mantenere un filo logico e uno cronologico degli avvenimenti che mi hanno segnato, proprio come il brutto marchio che mi deturpa il braccio; lo faccio per lasciare una traccia che resti a galleggiare nella rete, parole che servano da testimonianza prima di affondare.


È iniziato a fine gennaio, nello studio del mio principale. Siamo… eravamo io e lui in quel buco e non invidio certo chi siede al mio posto in questo momento. Erano le otto di sera di venerdì 31: il giorno del mio trentesimo compleanno. Stavo per chiudere tutto e tornarmene a casa quando lui è rientrato dopo che era mancato per tutto il giorno. Si è seduto affianco, chiedendomi di aprire un progetto seppellito in una delle tante cartelle del pc, aveva un’aria trafelata, scocciata. Era tardi cazzo e io volevo solo tornarmene a casa! Ci sono voluti altri tre quarti d’ora prima di alzarmi da quella sedia su cui poggio… poggiavo il culo per otto ore al giorno e a un certo punto, mentre mi infilavo il giubbotto, mi dice… oh no! Lui non dice, lui fa intendere… mi fa intendere che per quella sera avevo combinato poco.

Può darsi pure che in parte avesse ragione, in parte, ma vedete: dopo che passi le tue giornate chiuso tra quattro mura e non vedi un soldo da più di due mesi, diciamo pure che inizi a rallentare il ritmo. È una cosa naturale credo.

Discutiamo, come mai prima, ero stanco e quello era il fottuto giorno del mio ancor più fottuto compleanno, la stessa precisa ora in cui sono nato tra l’altro. Mi mette una mano sul braccio come a volermi accompagnare fuori: lui non dice, lui fa intendere.

Sono sempre stato impulsivo quando si tratta di far fronte a ingiustizie vere o presunte, sempre. Beh, non nel modo in cui lo sono stato quel giorno però, ho sentito qualcosa quando mi ha toccato e ho reagito d’impeto dandogli una spinta con tutte le forze; non sono molto alto, sì e no un metro e settantacinque, ma neanche due mesi fa pesavo circa centodieci chili e lui… lasciamo perdere. È finito a terra sbattendo la testa su un vecchio tavolo da disegno e quando mi sono avvicinato per vedere come stava ho visto che aveva il collo piegato in una posizione grottesca.

"Spezzato", continuavo a pensare e non mi riferivo al collo, ma alla sua vita.

Preso dal terrore mi sono inginocchiato accanto al cadavere, l’ho strattonato, volevo che si risvegliasse, che aprisse i suoi maledetti occhi accusatori e mi guardasse, credo di averlo colpito sul petto, ma lui nulla, se ne stava lì accartocciato e non respirava più.

Mentre stringevo le mani a pugno sulla sua camicia e provavo l’irreale sensazione di disprezzo nei suoi confronti, per essere morto facendomi l’ennesimo torto, in quel momento qualcosa è passato da me a lui. Non so cosa, una scossa, una luce, un cazzo di energia che migra come il calore da un punto caldo a uno più freddo, da uno vivo a uno morto. Ha spalancato gli occhi e la bocca come se si fosse risvegliato da un brutto sogno.

Non era ferito o svenuto o stordito, era morto: MORTO!

È per questo che su queste pagine mi sono dato il nome di Lazzaro. 

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