giovedì 20 marzo 2014

Gli errori si pagano

Gli errori si pagano. L’ho capito ieri sera. Sono stato troppo superficiale, arrogante, e solo perché avevo un superpotere.
La verità è che sono un coglione, e qualcuno rischia di morire per questo.
Ricapitolando, nel post precedente avevo detto di essermi liberato per sempre dell’organizzazione criminale che mi pedinava.
Ieri sera ho scoperto che mi sbagliavo: torno da una cena a casa di amici, chiudo la macchina, e all’improvviso vedo le stelle e poi l’oscurità assoluta.
Rinvengo in un capannone vuoto, illuminato da tre riflettori fotoelettrici puntati su di me. Ho un dolore pulsante alla testa e sono seduto su di una scomoda seggiola di plastica con le mani legate dietro la schiena. Attorno ho una dozzina di brutti ceffi. «Buonasera signor XXXXXXXXX.» dice il tizio che ho di fronte a me.
«Ci conosciamo, per caso?» gli chiedo, cercando di sembrare spavaldo.
«É riuscito a mandare a puttane un carico di sei milioni di euro, il mese scorso.» risponde il tizio.
«Mi scusi, deve avermi scambiato con qualcun altro.»
«No.» risponde questi, con il mio cellulare stretto in mano «Ti hanno visto parlare con i nostri uomini prima che la dogana sequestrasse tutta la droga. Abbiamo controllato: non sei uno sbirro, eppure sei riuscito a infiltrarti nella nostra organizzazione. Ora tu ci dirai per chi lavori e come hai fatto.»
Sudo freddo. Non potevo dire la verità, primo perché non mi avrebbero creduto, secondo perché – ipotesi peggiore – avrebbero potuto credermi, e allora vi avrei condannati tutti, Sybil, Max Steel, Portatore di luce, Lazzaro.
«Sono molto convincente.» rispondo da vero idiota.
Un cazzottone allo sterno. Me lo meritavo: porca miseria, non eravamo in un film, ma che credevo di fare? Il tizio mi afferra la faccia e mi ringhia addosso queste parole: «Con chi credi di parlare, eh? Ti faccio un buco in testa e ci piscio dentro hai capito?» Tira fuori una pistola e me la punta in fronte. «Canta, stronzo, chi cazzo sei?»
«D’accordo» rispondo, mentre la vescica mi si riempie. Chiudo gli occhi, mando il cervello in automatico e lascio libera la mia parte oscura, che il Signore mi perdoni. «Ammazzatevi tra di voi, stronzi.» urla un altro me stesso.
Mi butto a terra con tutta la sedia, mentre sopra di me si scatena la mattanza.
Quando tutto finisce ancora mi fischiano le orecchie. L’odore di polvere da sparo impregna l’aria. Apro un occhio e vedo un cadavere a pochi centimetri dalla mia faccia.
Mi rimetto in piedi e constato il massacro: dodici cadaveri sono sparsi attorno a me. Solo tre erano armati di pistola, gli altri stringevano tra le mani coltelli insanguinati e tirapugni. Un riflettore si è rovesciato senza spegnersi, mentre un altro è stato spento da un proiettile vagante.
Con fatica mi libero, rischiando anche di slogarmi un polso, e mi metto la corda in tasca. Inizio a cercare l’uscita quando un colpo di tosse rischia di farmi venire un infarto.
Nella semioscurità uno dei criminali si muove e farfugliava qualcosa. Non so perché mi avvicino. Appena sono abbastanza vicino rischio un secondo infarto: «Brigadiere…» dice.
Una mano gelata mi passa sulla schiena.
«Cosa?» chiedo con voce strozzata all’uomo a terra, con un bel foro nello stomaco. «Sotto copertura…» risponde.
Ripeto la domanda usando il potere della Voce: «Dimmi la verità: sei veramente un carabiniere in missione?»
«Sì.» risponde lui tossendo sangue.
Mi metto le mani tra i capelli. Oddio, che avevo fatto?
Dovevo salvarlo, a ogni costo. Mi riprendo il cellulare, inizio a comporre il numero del  118 ma mi fermo. Prendo un fazzoletto di carta, afferro un cellulare da un cadavere e chiamo i soccorsi con quello, camuffando la voce. Poi scappo di corsa. Non ho mai smesso di piangere nel frattempo.
Stamattina i giornali parlano di un regolamento di conti. Non si fa cenno al carabiniere. Se fosse morto i giornali lo avrebbero riportato subito, quindi è ancora vivo.
Devo salvarlo, ma è un compito che travalica i miei poteri. Ho bisogno di aiuto.

Lazzaro, ti prego, ho bisogno di te, contattami.

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