venerdì 21 marzo 2014

LUCI LONTANE



È tempo di partire…

Il molo è una lingua di cemento che si allunga dritta sul mare, le pietre ammassate ai fianchi per frangere l’onda sembrano praline di gigantesche nocciole.
Guardiamo le luci delle navi al largo e il mare che imbrunisce di pari passo con il cielo. A sinistra sfocia il fiume; quel particolare dà il nome all’intero tratto di spiaggia e io so che a mettersi lì con la canna da pesca, proprio sotto il cartello di divieto, si prendono delle belle orate. Più in là lo sfavillio dei lampioni al porto segna il confine per una primavera lontana dal punto in cui sediamo.
«Giocavamo a pallone su quella spiaggia, insieme. Un pallone di gomma che se lo portava via il vento prima ancora di calciarlo, e quando riuscivi finalmente a tirare non potevi mai sapere che direzione prendeva.»
Jessica si volta a guardare e il vento le sospinge i capelli sugli occhi. «Un gabbiano!» Dice, riportando lo sguardo su di me.
Io sorrido appena: «E come lo acchiappo un gabbiano!»
«Allora una formica, una mosca, qualcosa, qualsiasi cosa!» La sua voce si alza a ogni parola, ma non va molto più in là perché il vento carico di salsedine le respinge indietro. Alle nostre spalle c’è un vecchio faretto che non funziona, un misero cilindretto tutto ruggine di nemmeno tre metri d’altezza.
Rientriamo passeggiando, io le tendo la mano, ma lei si caccia le sue nelle tasche del giubbotto. A ogni passo noto le chiazze sul cemento lasciate dai calamari pescati la notte: si usano delle luci per ingannarli e farli venire a galla.

«Sei sicuro? Non mi dici bugie?»
«Potrei mentire su una cosa del genere?» Quelle parole mi vengono fuori quando siamo seduti in macchina di fianco al cimitero, il tergicristallo scaccia la pioggia dal parabrezza come impazzito. Sono poche parole, ma sono le più efficaci, se non per convincerla del tutto almeno per assecondarmi.
«Non posso mostrartelo: se resuscito qualcosa, poi devo attendere del tempo affinché il potere si ricarichi.»
Non dice niente. Apre la portiera ed esce fuori in mezzo alla pioggia. Io spengo il motore, recupero gli attrezzi dal cofano e le porgo l’ombrello, ma le sue mani rimangono dentro le tasche.
C’inoltriamo in un boschetto d’eucalipto che fiancheggia il cimitero, un groviglio di alte fronde che stormiscono nel buio mentre il vento muggisce in mezzo ai tronchi. Il terreno fangoso e ricoperto d’erbetta fradicia, s’alza e s’abbassa come un’onda che si abbatte sul muro di recinzione facendo in modo che si possa scavalcare agevolmente. Quando siamo dentro le nostre torce fendono gli spazi tra le tombe, il marmo lucido di pioggia amplifica la luce spedendola in ogni direzione.
“Sento” i visi nelle foto, percepisco i loro occhi mentre rivoli d’acqua colano sui vetri dietro i quali si nascondono. C’è la foto di una bambina e io non posso fare a meno di fermarmi a guardarla: si chiamava Grazia, nel suo mezzobusto indossa il grembiulino rosa della scuola con un gigantesco fiocco giallo sotto il mento.
«Non puoi riportarli tutti indietro.» Mi sussurra Jessica, mentre io sto fermo a fissare la tomba e su di noi piovono scudisciate d’acqua. Afferra la mia mano e mi conduce sul vialetto di ghiaia che porta alla zona degli alti muri con i loculi impilati uno sull’altro.

La polvere di marmo si è impastata con l’acqua sulle mie braccia, le urla roche sono state annegate dalla pioggia che mi precipita in gola mentre rivolgo il viso al cielo tra il balenio dei lampi. Jessica piange, ma nella furia dell’acquazzone non riesco a scorgere le sue lacrime, le labbra le tremano incontrollate e stanno diventando viola.
«Torna in macchina!» Le grido lanciando le chiavi e cercando di soverchiare il fracasso del temporale «torna in macchina!»
Ha un attimo di esitazione poi scappa a correre nella direzione opposta e l’ultima cosa che vedo è il cappuccio del suo giubbotto che balla sulle spalle.

È tempo di partire. Eccomi DEM: sto arrivando.

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