venerdì 10 gennaio 2014

IL MANDALA

«Ehi, buongiorno.»
La voce di A. mi richiama dalle profondità del sonno. Nella mia testa qualcuno sta ancora festeggiando capodanno. Mentre riemergo dalle volute del piumone rosso, esalo rantoli lamentosi, imbevuti di sensi di colpa, condizione psicofisica meglio conosciuta come hangover.
«Ma sei morto?» A. mi osserva con un misto di divertimento e curiosità: è ai piedi del letto, la luce dalla finestra gli illumina le spalle. Poggia due tazzine di caffè fumante sulla cassettiera. «Sei sicuro che fosse solo Long Island quello di ieri sera?»
«Certo che era solo … ma chi te l’ha detto che ho bevuto Long Island?»
«Puffo.»
Abbasso lo sguardo, per dissimulare l’angoscia: ogni volta che A. lo nomina, mi torna in mente quella sera. Mi torna in mente il lupo. Sono giorni che faccio il possibile per non pensarci, ma quell’immagine e quella sensazione di rabbia cocente mi tormentano come chiodi allo stomaco.
«Senti, ma c’è qualcosa che devi dirmi?»
Panico: non gliel’avrà mica raccontato? «Che vuoi dire?»
«Non so,» spalanca le braccia A., «ogni volta che nomino Puffo, ti agiti come se avessi evocato il diavolo!»
«No, niente.» Devo mentire. Per forza. Dirò qualsiasi cosa, ma nulla di quel lupo. Non ora almeno. «Beh, qualche tempo fa, quando siamo stati alla serata della Torre, uno ci ha provato con me,» invento di sana pianta, «uno brutto, eh, e naturalmente non ci sono stato. Però mi è stato molto addosso, quindi poteva sembrare altro e magari lui ha frainteso … hai capito, no?»
A. mi fissa per un istante, occhi come fessure. Infine si apre in un sorriso rassicurante: «Tutto qua? Guarda che mi fido! Che stupido!» Si china sul letto e mi stampa un bel bacio sulle labbra. «Beviti ‘sto caffè, che si fredda!» Si avvia verso la cucina.
Ok, significa che Puffo non gli ha detto un bel niente. Puffo santo subito.
Mi alzo a prendere la tazzina dalla cassettiera e mentre sorseggio il caffè, faccio mentalmente il punto della situazione. Credo sia la prima volta da quella sera, ma fare chiarezza è il primo passo verso la felicità, diceva la mia terapista.
Dunque, riassumiamo. Quando Puffo è stato aggredito, ho provato una rabbia terribile, un misto d’impotenza e sdegno di fronte a tanta cattiveria gratuita: dal mio petto è scaturita una forza incredibile, sensazione che posso spiegarmi solo con l’immagine di un mandala, di cui ero il cuore pulsante.
Poi è apparsa quella cosa. Ricordo bene di aver focalizzato la felpa di quel tipo e di aver chiesto aiuto e quello che è arrivato non era un lupo qualsiasi, ma quel lupo, proprio quello della felpa.
È tutto così assurdo: queste robe esistono sono negli Rpg, insomma non mi chiamo Yuna, non dovrei evocare creature. Non è … normale!
A quel punto prende la parola la mia voce interiore, simile a una vecchia zia, schietta e dagli zigomi rifatti, a cui do istintivamente le fattezze di Cher: Oh diamine, parli come uno di quei vecchi bigotti cattolici: ti è capitato e devi riuscire ad accettarlo!
Sì, ma questa è grossa, dev’esserci una spiegazione – che so – psichiatrica: forse sono completamente pazzo!
Eh no, ciccio, mi rimbecca Cher, punto primo, se fossi pazzo, non te ne accorgeresti; e poi quel lupo l’avete visto in quattro.
Porca vacca, è vero: la faccia di Puffo e dei nostri aggressori non lasciavano dubbi.
Quel lupo, sentenzia Cher, è più reale della Vergine di Medjugorje!
«Ehi!» La voce di A. interrompe il mio soliloquio e mi riporta alla realtà.
«Che c’è?»
A. indica un punto imprecisato sulla mia testa. «Che hai fatto lì?»
«Dove?»
«Lì, sulla nuca.»
Mi sfioro il collo, sulla sinistra, proprio all’attaccatura dei capelli. No, non può essere. «Fammi una foto!» esclamo, tagliando corto.
«È una cicatrice,» commenta A., mentre mi punta con l’obiettivo dello smartphone e scatta la foto, «ma ce l’hai sempre avuta?»
Senza rispondere, mi fiondo a guardare l’immagine. E impallidisco.
«Sembrano due S intrecciate,» mormora A., «che strano, non l’avevo mai notata!»
Due S intrecciate. Proprio come tutti gli altri.

 Ci sono dentro, porca troia, ci sono dentro anch’io!

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