lunedì 20 gennaio 2014

Ogni scarrafone è bello a mamma sua

Il mio vicino di casa ha sempre un sorriso smagliante, una cosa indegna, sembra una pubblicità semovente del Colgate o il gatto del Chesire più brutto e molto meno coccoloso. La moglie invece è una stronza con il turbo, e basta cogliere uno stralcio di conversazione tra loro per chiedersi come mai lui non l'abbia ancora uccisa, perché gli darebbero pure delle attenuanti.
L'apparente stabilità del loro rapporto mi ha lasciato assai perplessa per un paio di mesi, finché una domenica pomeriggio non ho sentito dei rumori arrivare attraverso la parete in comune. Mi è bastato far aderire un bicchiere al muro per scoprire che: a) il mio vicino stava urlando b) lo stava facendo molto forte e soprattutto c) stava insultando sua moglie, la quale con ogni evidenza non era on the premises.
Elementare Watson, quando il gatto non c'è i topi ballano e quando la sua agra metà non c'è il vicino si scarica, sempre la domenica, sempre alla stessa ora.
Questo lunghissimo preambolo per arrivare al punto: noi stiamo facendo la stessa cosa. Usiamo questo blog come sfogo, per poi uscire nel mondo reale e fare finta che tutto sia normale, magari sfoggiando anche un sorriso scintillante e del tutto fasullo.
Detto questo, sappiatelo: vivere in un labirinto di riflessi non fa bene. Dopo un po' ti sembra di essere intrappolato in qualche casa degli specchi da lunapark, e con nemmeno la consolazione dello zucchero filato.
Dopo il mio shopping estremo su internet è passata una settimana intera prima che succedesse qualcosa. Sette estenuanti giorni ad incontrare il tuo stesso sguardo mentre svolti il corridoio, guardi la tv, fai colazione la mattina appena sveglia (non una bella visione). Per non parlare della reazione degli abitanti felini della casa, cinque gatti alle prese con cinque intrusi del tutto identici: qualsiasi catlover si può immaginare il seguito.
E poi una mattina che pioveva forte, la radio a borbottare di sottofondo per tenermi compagnia mentre passo lo straccio, mi sono vista in uno degli specchi, il secchio in una mano e il mocio nell'altra, e ho pensato (solo perché tutte le volte che lavo il pavimento mi viene in mente mia madre) a come sarebbe vivere ancora in Liguria, con una serie di malinconici what if attaccati dietro a scodinzolare.
Il riflesso ha sussultato e la stanza al di là del vetro è cambiata: piastrelle azzurre, un termosifone a parete carico di asciugamani. La solita sensazione di essere sia tirata che spinta e poi WHUP!, mi sono ritrovata altrove. Questa volta vestita, per fortuna. Altrove o per essere più precisi nel bagno di mia madre, a più di 300 km e tre regioni di distanza dalla città dove vivo.
In casa non c'era nessuno ma mentre saltellavo davanti allo specchio (le gatte di mia madre a guardarmi come se fossi scema) d'improvviso ha iniziato a girarmi la testa e flop! Schermo nero, caput, il primo svenimento della mia vita. A forza di leggere romanzi mi ero fatta l'idea (del tutto assurda, lo ammetto) che svenire fosse romantico, invece fa un gran male, soprattutto quando cadi come una pera cotta sul pavimento e non tra le braccia del principe azzurro.
Al suo ritorno mia madre mi ha trovato sdraiata sul tappeto del bagno con Micia e Nocina acciambellate sopra.
“Non è che non sono contenta di vederti,” mi ha detto, “ma cosa fai per terra?”
Attimo di panico, poi il calendario appeso di fianco alla lavatrice è venuto in mio soccorso. Mi sono alzata, sfoggiando il sorriso migliore del mio scarso repertorio, e le ho dato un bacio.
“Lo sai che ho la pressione bassa, mi sono dovuta stendere. Auguri di buon compleanno in anticipo, ho pensato di farti una sorpresa. Andiamo a pranzo fuori? Offro io.”
L'amore materno per fortuna rende ciechi: non mi ha chiesto perché ero vestita da casa.

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