mercoledì 29 gennaio 2014

Rabbia

Il 24 è statoil mio compleanno. Lo stesso giorno mi avrebbero tolto la stecca dal piede.

Nei due giorni precedenti costruivo ipotesi infinite sul come comportarmi rischiando di rivedere il laido della volta scorsa.

Dopo aver a lungo parlato della necessaria moderazione nell’utilizzo dei poteri che stiamo scoprendo, mi sentivo sulle spalle il peso della coscienza. Alle cinque del mattino del 24 mi sono alzata di pessimo umore dopo una notte del tutto insonne e sono andata in cucina per bere un caffè. Nel corridoio ho incrociato il coinquilino che andava a farsi la sua tradizionale doccia dell’alba prima di cominciare a studiare. Mi ha guardata stupefatto per quanto fossi mattiniera, gli ho grugnito che non mi ero mai addormentata e mi sono chiusa in cucina.

Dieci minuti dopo ero appoggiata contro lo stipite della finestra, assorta a guardare le nuvole grevi. Mi sono sentita battere due dita su una spalla e mi sono girata di soprassalto, versandomi addosso parte del caffè. Succede sempre quando sono soprapensiero. Mi sono voltata come una belva contro l’israeliano che ha questa maledetta abitudine di muoversi per casa silenzioso come un puma ma, prima che riuscissi a ricoprirlo di insulti, ha sgranato gli occhi e fatto due passi indietro.

Ci siamo fissati per un istante, fino a che il rumore della tazzina che precipitava dalle mie mani andando a sfracellarsi sul pavimento ci ha fatto sussultare.
“Chi era?” mi ha chiesto. Era arrabbiato e spaventato insieme.
Non ho dovuto chiedere a chi si riferisse, mi sono limitata a guardare desolata il mio caffè sulle piastrelle lavate il giorno prima e gli ho detto: “Siediti”
Aveva avuto l’allucinante esperienza di passare dai miei pensieri a quelli dell’uomo sconosciuto e ritorno nel giro di un breve flash. Alla fine della storia mi ha guardata con le sopracciglia aggrottate e ha detto: “Di nuovo.”
Tre volte gliel’ho dovuto raccontare. Tre volte, due tazze di caffè americano e sei sigarette dopo, si è convinto che dicessi la verità. Gli ho spiegato che sarei andata a farmi rimuovere la fasciatura.

“Vai sola?” ha chiesto.
“Non lo so.”
“Ti porto io.”

Un’ora dopo scendevo dalla sua auto e zampettavo sull’equilibrio precario e caparbio delle stampelle verso il pronto soccorso: dell’uomo neanche l’ombra. Approfittando della totale assenza di pazienti un’infermiera ha detto che ci saremmo sbrigate in pochi minuti di ambulatorio. Lui si è seduto scompostamente ad aspettare fuori, gambe larghe e braccia incrociate.

L’infermiera ha sciolto le fasce senza fare riferimenti alla cicatrice, ha controllato la funzionalità del dito e verificato che non fossi ancora gonfia. Sono uscita su entrambi i miei piedi, vivaddio.
L’israeliano si è alzato senza una parola. Stavamo andando via quando ho visto spuntare dalla porta la faccia porcina del medico della volta precente. In un istante i due uomini erano uno di fronte all’altro e ho pensato che sarebbe volato un pugno.

“Che vuoi?” ha chiesto il medico, naturalmente perplesso dall’atteggiamento aggressivo di un completo sconosciuto.
“Niente!” mi sono intromessa io. La mia mano è andata istintivamente sul braccio del mio amico per calmarlo.
In quel momento il medico mi ha toccato una spalla, salutandomi: “La signorina che aveva paura dei temporali. Visto? È di nuovo in piedi!”
Come una scarica elettrica la rabbia repressa dell’uno si è scagliata attraverso la mia mente contro la lussuria che stava nascendo nell’altro. Non sono stata che un tramite.
Il medico ha strabuzzato gli occhi, il respiro mozzato dallo spavento. Sentivo i battiti accelerati nel suo cuore rimbombare contro il mio. Mi sono istintivamente scostata da entrambi. L’israeliano ha continuato a guardare l’uomo minacciosamente mentre gli dicevo “Andiamo.”

In auto siamo stati zitti. Si ostina a non fare domande e tanto non avevo risposte da dargli.

Anch’io sono un’arma. Questo pensiero mi ha tolto il sonno.

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